Fiore

Sull'amore a vent'anni e la follia irrazionale del sentimento, un film prezioso e splendido che affonda nel fiume incontrollabile della vita

Con le mani e lo sguardo persi dentro storie che diventano un fiume vivissimo e incontrollabile, Claudio Giovannesi firma con Fiore la sua opera migliore, un film magistrale sull’amore a vent’anni, sulla vita stessa intesa anzitutto come emozione, spinta irrazionale al desiderio e alla fuga.

La storia di Daphne e Josh, amanti shakespeariani rubati alla strada e chiusi in una prigione minorile, guarda ovviamente al mondo marginale degli esclusi, da Truffaut ai Dardenne, universo narrativo con decine di esponenti giovani, ribelli, vitali. Tuttavia il film ha anche molto a che fare con quello che da alcuni anni in Italia viene chiamato “cinema del reale”. L’etichetta del resto non è estranea a quanto fatto da Giovannesi all’inizio della sua carriera (il doc Fratelli d’Italia), ma un film come Fiore (e come già faceva in buona parte il precedente Alì ha gli occhi azzurri) travalica categorie e inquadramenti asfittici per approdare ad una sintesi di sguardo che ha del miracoloso.

Giovannesi non abbandona mai la dimensione documentaristica del reale più immediato e orizzontale, e infatti il film è un lungo pedinamento di corpi e volti e splendidi primi piani, tuttavia tutti gli elementi di realtà convergono ad un fine più alto e squisitamente drammaturgico, un’adesione emozionale all’esistenza e a suoi personaggi.

La parabola di Daphne e Josh cresce sui loro volti autentici ma si alimenta anche dei piccoli movimenti dei loro corpi, dell’indugiare di sguardi e tocchi, di una sintesi poetica che nasce nel reale quotidiano e trascende nell’umano più universale. Del resto quello di Giovannesi è un film di libertà e ribellione, un film troppo caldo per essere contenuto all’interno di un’immagine controllata, perché sbarre e prigioni sono proprio i limiti di ogni sentimento.

Storia di guardie, di sbarre e cortili, di reti e celle e legami, Fiore è l’esplosione di tutto ciò che può nascere all’ombra dell’autorità e del potere, come il fiore che appunto cresce in mezzo al cemento. Tutto quello che conta ed esiste all’ombra delle sbarre, dietro e attorno ed infine al di sopra di esse. E tutto questo viene raccontato con una sintesi, formale e narrativa, che adopera con delicata precisione l’arte dell’ellissi, della sintesi, della rarefazione formale che diventa poesia quotidiana delle piccole cose e dell’amore enorme che tutto sovrasta.

In una celebre intervista Hemingway parlava del suo principio dell’iceberg, secondo il quale gran parte del materiale che compone un racconto deve rimanere sotto la superficie, invisibile ma necessario al galleggiamento del tutto. Così è Fiore, film di autorità prepotenti e insegnamenti importanti, di vite cresciute ai bordi della società e fuori dalle scuole, di paternità sofferte e la galera che diventa una malattia di famiglia, strascico da riportare in anamnesi. E gran parte di questo resta sotto lo sguardo, sotto la superficie di un film prezioso, vitale, che ama a cuore aperto i propri personaggi e per raccontarli si nutre di piccoli dettagli e schegge di vita. L’equilibrio di sintesi ed emozione ne fa un film da ricordare e proteggere in tutte le sue parti, dalla furia irrazionale del sentimento al finale agro-dolce, in quella linea d’ombra tra sogno e disillusione, adolescenza ed età adulta, in cui già si chiudeva Il laureato.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 24/05/2016

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