Foxcatcher
Nuovi orizzonti per il grande cinema americano: Bennett Miller realizza un’opera politica essenziale, attraverso un racconto di sport, di vita e di morte.
Il bipolarismo come naturale evoluzione del doppelganger, almeno per ciò che concerne il cinema americano. Bipolarismo come dimensione psichica intrinseca ed estrinseca familiare: lì dove negli anni 80 l’eroe –antieroe ? – era solo e Titano, adesso sono due fratelli, uguali e contrari, in ossimoro relazionale. Nei film di lotta sangue e sudore, Robert De Niro era uno in Toro Scatenato, Sly Stallone uno non più d’uno in Rocky, Ralph Macchio solitario Karate Kid. Ora invece sono due, come in The Fighter di David O.Russel, o in Warrior, di Gavin O’Connor, per arrivare all’opera più politica e programmatica del 2015, Foxcatcher, opera poderosa, che prende gli anni 80 per farne paradigma del presente, come fa pure Chandor con A Most Violent Year, altro grandioso frutto di quest’ottima annata. Dirige Bennett Miller, regista avantclassico, che assimila la lezione di old e new Hollywood e realizza oggetti filmici assolutamente originali, come i precedenti Truman Capote-A Sangue Freddo e Moneyball: l’Arte di Vincere.
Foxcatcher si colloca nell’insidioso territorio del “tratto da una storia vera”. Ciò è solitamente deleterio perché non permette alla visione spettatoriale di liberarsi, imprigionandola in un insano rapporto con il reale e la cronaca. Qui fortunatamente non rileva, il film vive di vita e racconto suoi propri, grazie anche alla scrittura di Frye e Futterman. Channing Tatum e Mark Ruffalo sono Mark e David, i fratelli Schultz, oro alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 nella lotta greco-romana, l’uno asociale e solo, l’altro carismatico e con moglie e figli. La lotta è sport notoriamente povero, quindi i due, uniti unitissimi, conducono la loro esistenza piccolo borghese tra casa e palestra, rare sono le occasioni in cui la macchina da presa li segue in ambienti outdoor. Nulla sembra poter intaccare la routine, fino a che l’America, nella sembianze di John DuPont, non si ricorda di Mark Schultz. John, uno Steve Carrel esorbitante, è l’erede della famiglia più ricca e discussa del mondo, che ha marchiato gli USA l’Occidente e il 900 tutto (dalla produzione di armi da fuoco all’invenzione del nylon, dalla messa al bando della canapa all’agente arancione usato in Vietnam). Lui sembra dover subire il contrappasso per tutti i crimini contro l’umanità dei DuPont suoi predecessori: è solo, bipolare, succube di mamma altera, omosessuale latente, represso, violento, tormentato nella mente e nel corpo. Ha tuttavia una visione alta ed altra di sé (“ornitologist, philantropist, philatelist”), decide di accogliere Marc ed i migliori lottatori del Paese nella sua immensa tenuta full optional, per farli preparare alle Olimpiadi di Seul 1988 e appropriarsi delle loro vite e dei loro successi, come trofei di caccia alla volpe. La DuPont è denaro, il denaro è successo, il successo è America: semplice, eppure inquietante.
Miserabile John, riesce ad irretire la fiducia e l’amicizia del Mark ramingo, riuscendo a contaminarne la rozza purezza con fiumi di cocaina e con il potere ossidante del denaro, ne fa uno chaperon servile e prono, così che dalla celebrazione dell’agonismo si passa ad un’elegia della decadenza molto simile al Behind the Candelabra di Soderbergh. Poi però arriva David, il fratello buono e incorruttibile, lo sport sembra voler riprendere il sopravvento, ma John è malato e fuori controllo, troppe cose sono successe in quella palestra della tenuta Dupont e il peggio deve ancora venire, il sangue scorrerà sulla pelle di un Paese corrotto come i suoi stessi miti. Non basta, Mark è perduto, la caduta è ancora più giù, in un finale letale e profetico come lo sguardo di una volpe imbalsamata.
Spicca il lavoro sul corpo e sulla figura dei protagonisti, Tatum riesce a comunicare emozioni con un movimento del trapezio o uno schiocco della mandibola, e Ruffalo desublimato da sex symbol è anche meglio, attorno a Carrel che sembra un supercattivo uscito dall’universo DC Comics, alla faccia della futilità dei cinefumettoni teorizzata da Inarritu. Su tutto, la mano gelida e l’occhio differente di Miller, che coglie l’allucinazione nello scintillio delle medaglie e dei trofei di caccia, all’uomo o all’animale. Questo è cinema, gente.