Cosa sarà
Bruni mette in scena un dramma lacerante appellandosi però a un linguaggio dolce e a un umorismo commovente
L’obiettivo cui sembra mirare l’ultimo film di Francesco Bruni, presentato in chiusura alla Festa del Cinema di Roma, è essenzialmente questo: mettere in scena un dramma lacerante appellandosi però a un linguaggio dolce, a un umorismo commovente, che non vuole gridare o graffiare, ma piuttosto cullare malinconicamente lo spettatore con un racconto intimo e doloroso, in cui si mischiano ricordi, paure e speranze.
Il protagonista è Bruno Salvati (un eccellente Kim Rossi Stuart), regista deluso e arrabbiato, marito forse respinto, padre più amato che stimato, che si scopre improvvisamente malato: forse la “fragilità” è il suo destino, ma forse il destino ha messo sul suo cammino, al di là dell’oscurità fitta e opprimente della malattia, qualcosa di bello e inaspettato.
Si percepiscono qui gli echi di certi film dal sapore agrodolce che Bruni ha sceneggiato per Virzì – Tutta la vita davanti, Tutti i santi giorni - più che la continuità con l’approccio scanzonato, ma mai semplicemente epidermico, dei precedenti Tutto quello che vuoi e Scialla!. Come in quest’ultimo film, come in Noi 4, come in tanti altri film del Bruni sceneggiatore, la famiglia è il fulcro attorno a cui ruota il discorso. La riflessione sulla malattia, che pure è raccontata senza sconti, con i suoi abissi di terrore e angosciosa solitudine, nonostante la pesantezza che porta intrinsecamente con sé, si fa spesso da parte per lasciare spazio agli affetti, alle tensioni sentimentali, al bisogno (ora dei genitori, ora dei figli) di reclamare amore e attenzione, di sciogliere i nodi dell’incomprensione, di rompere la crosta di ghiaccio della distanza, ora soffrendo e ora sperando, ostinatamente, nella riconciliazione, sforzandosi di credere in un futuro possibile proprio quando la vita, beffardamente, ci pone di fronte incertezze e interrogativi.
Il regista attinge alla (sofferta) dimensione biografica per mettere il protagonista a confronto con una serie di cose che si stratificano l’una sull’altra: non solo il tempo e la precarietà del vivere e della felicità, ma – dentro ai confini di questa riflessione ampia – anche il rapporto con una figura materna dolce quanto fuggevole (persa troppo presto?), e soprattutto con una figura paterna complessa, giudicante, a tratti egoista, menzognera, e tuttavia infine perdonabile. Ma c’è di più: il rapporto con i figli, dunque la paternità vissuta come insufficiente e fallibile, e il raffronto maschile e femminile – inscritto sia nella coppia sia nei modi di essere dei ragazzi – che delinea un quadro difficile da tollerare per il protagonista, che vede e sente il maschile come eternamente imperfetto, debole, insufficiente quando, impietosamente, si confronta con un femminile (la moglie, la figlia) che invece appare decisamente solido, responsabile, forte, razionale. Proprio la malattia, evento esplosivo che mette ognuno di fronte alla propria autentica interiorità, aiuterà Bruno Salvati a mettere in discussione questa visione del mondo, in cui si sente in qualche modo marginalizzato ma che forse lui stesso si ostina a reputare più vera di quanto non sia in realtà.
Tuttavia, al di là delle considerazioni sulle tematiche che mette in campo Cosa sarà, vanno evidenziati alcuni peculiari punti di forza di questo quarto lungometraggio di Bruni. Da un lato la scelta di inscrivere il registro del tragico in quello umoristico, senza mai sbilanciarsi su nessuno dei due versanti, è sicuramente indovinata e riesce a conquistare lo sguardo spettatoriale evitando scossoni e strappi. Dall’altro – ed è forse questo aspetto che, più di ogni altro, rappresenta il quid, la singolarità del film – c’è un ottimo, studiatissimo lavoro sul corpo attoriale di Kim Rossi Stuart. La metamorfosi imposta dalla malattia, di cui il taglio dei capelli (posto quasi in apertura) è incipit e segno, è viaggio in un dolore tutto significato attraverso il corpo, tutto estroflesso, rovesciato in superficie: l’attore lo assorbe, lo fa proprio, e attorno a questo costruisce il personaggio che però non è mai solo sofferenza, ma anche, e anzi molto spesso, autoironia e gioco, oppure amarezza e rabbia, o ancora impaccio e tenerezza. E tutto questo, prima ancora che nel dialogo, prende forma attraverso la recitazione incredibilmente fisica ed espressiva del protagonista.