Speciale MUBI / La signora della porta accanto
Memoria personale e cinefilia all’ombra del Lockdown, dal supporto fisico allo streaming attraverso il magnifico melodramma d'amor fou girato da Truffaut
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Durante i mesi del Lockdown, il mio tempo ha talmente cambiato forma che stentavo a riconoscerlo. Alla routine dei cinque giorni lavorativi si è sostituita una ronde imprevedibile fatta di ferie obbligate e cassa integrazione, con il risultato che quando non lavoravo dodici ore al giorno, ne trascorrevo altrettante a guardare film. Eppure, nonostante l'offerta monstre di piattaforme vecchie e nuove (o proprio a causa di questa sovrabbondanza un po' asfissiante), in streaming non ho guardato nulla o quasi. Non è stato un calcolo né una scelta consapevole. Semplicemente, davanti a tutto questo ben di dio a portata di mano, io ho scelto l'oggetto fisico. Mosso da una specie di frenesia, ho comprato molti più blu-ray del solito, mentre l'intero processo correlato all'ordine ha assunto un aspetto rituale: dalla sofferta selezione dei titoli al refresh sul sito del corriere di turno per vedere quanta strada avesse già percorso il pacco e quanta ancora gliene restava da compiere, dalla voce benedetta del postino al citofono che ordinava di scendere al frenetico processo dell'unboxing, sorta di macchina del tempo tarata su natali di oltre trent'anni fa. Pur non essendo un truffautiano (è grave, lo so), uno dei pochissimi film visti su piattaforma (MUBI) durante i giorni della clausura è stato La signora della porta accanto. Mi è venuta voglia di rivederlo perché l'ho sempre amato, perché trovo Depardieu uno degli attori più straordinari di ogni epoca e poi perché lo ricollego ogni volta a un fenomeno che io chiamo 'la maledizione del cinefilo', e che obbliga il suddetto cinefilo a consigliare titoli a bruciapelo anche a persone sconosciute o appena conosciute. Una responsabilità che ho sempre sofferto molto, perché mi dispiace l'idea di deludere le persone.
Così il film di François Truffaut lo associo, nella memoria, a un pomeriggio del mio periodo universitario torinese, quando la mamma in visita di un coinquilino, spulciando tra una pila di VHS, chiese quale avrebbe potuto guardare, facendo convergere inevitabilmente su di me gli sguardi dei presenti. Non ricordo perché scelsi proprio quello. A dirla tutta, non ricordo più neppure se la mamma lo apprezzò o meno. Quello che non dimenticherò mai è che accusai così tanto il peso di quella scelta che mi sentii quasi obbligato a rivederlo insieme a lei, cercando di interpretarne silenzi, gesti e perfino spostamenti minimi sulla poltrona. Credo che arrivai a fine visione stremato dalla tensione. Probabile allora che mi sia venuta voglia di vederlo ancora una volta per scioglierlo dal ricordo di quell'esperienza vagamente snervante. La femme d'à côté, visto sulla più cinefila delle piattaforme, è esattamente il mélo ferale che ricordavo; sin dall'incipit, con le sirene della polizia che squarciano il silenzio dell'alba di Grenoble per raggiungere il luogo in cui sono stati trovati i cadaveri dei due amanti. Ma oltre alla storia d'amor fou e ai topoi da melodramma che Truffaut padroneggiava da maestro (l'inesorabilità del fato è sottolineata dalle dissolvenze al nero che chiudono quasi ogni sequenza), quello che non avevo mai capito è quanto La signora della porta accanto sia anche un lucidissimo, quasi teorico affaire de femmes, per citare un magnifico Chabrol di qualche anno successivo: il racconto di una doppia disillusione amorosa, quella patita da due donne che si dispongono ad amare senza riserve ma si imbattono in uomini che di quell'amore riescono a decifrare – e di conseguenza a ricambiare – solo la superficie.
L'impossibile storia d'amore di Mathilde (Fanny Ardant) – che per un gioco del caso si ritrova a essere la nuova vicina di casa di Bernard (Gérard Depardieu), l'uomo di cui era disperatamente innamorata anni prima – riverbera infatti quella di madame Jouve, la narratrice del film, che in gioventù, abbandonata dall'uomo che avrebbe dovuto sposarla, aveva tentato il suicidio azzoppandosi per la vita. La comprensione tra le due donne scatta immediata e reciproca. Al loro primo incontro Odile Jouve, smentendo la definizione sprezzante con cui Bernard aveva cercato di ingabbiarla pochi giorni prima, dirà a Mathilde di non trovarla affatto complicata. Perché le donne del film non si fanno definire da formule banali, e le loro decisioni non meritano spiegazioni mediocri. Lo dice tra le righe Mathilde a Philippe, suo marito, il quale sostiene che madame Jouve abbia rifiutato l'incontro con l'uomo che l'aveva abbandonata vent'anni prima per non mostrarsi invecchiata. Il vero motivo del rifiuto di Odile – non mostrare a quell'uomo il proprio handicap per non lasciar trapelare quanto quel vecchio amore avesse rappresentato per lei, letteralmente, una questione di vita o di morte – non lo sfiora neppure. «Madame Jouve è una donna straordinaria, ma gli uomini non l'hanno mai capita», gli dice la moglie, provocandone la capitolazione senza condizioni: «Non l'avevo capita neanch'io. Gli uomini non capiscono nulla dell'amore, siamo solo dilettanti. Io ti amo Mathilde, ma non ti capisco». Come in fondo non la capisce neanche Bernard, e la sua plateale scenata pubblica davanti alla notizia che l'amante partirà per la breve luna di miele che non si era mai concessa, è più la manifestazione infantile di una volontà di possesso che un indizio d'amore. Non è un caso se, dopo essere stato perdonato dalla moglie e averne scoperto la gravidanza, Bernard scelga di tornare in famiglia, il luogo dove tutto è facilmente riconoscibile e dove i ruoli sono definiti con rassicurante chiarezza. Come non è un caso che sia Mathilde ad ammalarsi, a rifiutare il cibo fino al ricovero, a finire in cura da uno psichiatra che, esattamente come gli altri uomini, non la ascolterà. E non è un caso, infine, se sia di Mathilde la scelta di chiudere per sempre, e nell'unico modo per lei concepibile, la storia con Bernard, generando un'ulteriore eco con le passate vicende di Madame Jouve. A quest'ultima spetta, doverosamente, il compito di commentare nel finale la sorte dei due amanti: «Se dovessi scegliere una frase da incidere sulle loro tombe, sarebbe 'né con te né senza di te'. Ma nessuno ha chiesto la mia opinione». Una donna inascoltata, ancora una volta.