Speciale MUBI / Baci rubati
Il fascino di un film sbagliato in qualunque modo lo si guardi, in un’era in cui tutto deve essere costantemente esplicitato, ribadito e sottolineato
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
«L’esercito, come il teatro, è un meraviglioso anacronismo», dice Lucien, il rassicurante e benevolo padre di Christine Darbon ad Antoine Doinel, appena riformato per motivi di condotta. Anche Baci rubati è un meraviglioso anacronismo. Nell’anno del Maggio, delle rivolte studentesche, mentre Godard si porta avanti girando nel ’67 La cinese, Francois Truffaut, autoproclamatosi un uomo del Diciannovesimo secolo, si tuffa in una malinconia tutta privata, sublimata dal brano di Charles Trenet Que-reste-t- il des nos amours, che accompagna i titoli di testa per poi tornare come delizioso sigillo sul finale. Il gesto politico viene liquidato nell’incipit, con le immagini della Cinémathèque (all’epoca ancora al Trocadero…) dai cancelli sbarrati in seguito alla protesta per l’estromissione di Henri Langlois. Grazie all’azione di un comitato di autori cresciuti alla sua corte, tra cui lo stesso Truffaut e tutta la banda dei Cahiers, il funzionario venne reintegrato ma la scelta del regista, a quasi dieci anni dall’esordio de i Quattrocento colpi, di accostare la visione del tempio del cinema chiuso alla dolce inquietudine dei versi di Trenet racconta lo smarrimento dell’autore di fronte a un’esperienza, quella della Nouvelle Vague, ormai conclusa nel suo portato ideologico, e di cui sarebbero rimaste solo le prove (ancora e per lungo tempo straordinarie) espresse dalle singole personalità, mentre nuovi autori figli di quella lezione si facevano avanti contaminando la camera stylo di umori più cupi e posizioni teoriche più radicali, come Maurice Pialat e Philippe Garrel che in quello stesso anno realizzano, rispettivamente, L’enfance nue e Le Révélateur.
Credo di aver ascoltato per la prima volta Que reste-t-il des nous amours proprio grazie a Baci rubati. Questa renoiriana rassegna di luoghi e oggetti che altro non sono che il volto caro del proprio passato è la forma-canzone delle partie de campagne amate da Truffaut e che, sulla scorta delle letture e delle visioni da lui indicate, anche io andavo ripercorrendo a ritroso, quasi a voler ricostruire l’albero genealogico dei miei autori. Nella prima ondata di visioni truffautiane Baci rubati non era tra le opere che mi avevano colpito di più: il suo statuto di piccolo film non poteva competere con operazioni più complesse a cui ancora oggi riconosco un impatto maggiore, come i racconti sull’infanzia, le trasposizioni di Henri Pierre Roché o i mélo che si fondono alla lezione hitchockiana sulla suspense. Eppure, ripercorrendo oggi il catalogo MUBI dedicato a Truffaut non ho avuto alcuna esitazione nella scelta. Quel che mi affascina oggi di Baci rubati è proprio il suo essere un film sbagliato in qualunque modo lo si guardi: intimista quando il mondo dell’arte scopriva l’imperativo dell’engagament, rétro nello stesso sviluppo di trama e personaggi, con Antoine Doinel che corre da un angolo all’altro di Parigi come un protagonista del realismo poetico, ora soldato, ora concierge, ora garzone di bottega e poi – con ironica strizzatina d’occhio al cinema di genere - private eye molto poco privato. Doinel che, alle prese con i segni della modernità, immancabilmente fallisce, rifugiandosi nella corrispondenza, nelle lettere – “Preferisco scrivere” dirà a Christine al momento di farle la proposta di matrimonio – quando il mondo e la società sembrano invece avanzare verso il futuro come i famosi treni nella notte: e le due tendenze sembrano incontrarsi per un istante soltanto nella splendida sequenza della posta pneumatica, tragitto sotterraneo e inconsapevole go-between tra i due amanti.
Questo suo disagio esistenziale, questo sentirsi fuori posto, in un’epoca che non è la sua, è ciò che mi rende oggi così caro Baci rubati. Il suo essere fuori di testa, quasi prossimo allo slapstick, anarchico nel voler disattendere qualsiasi aspettativa, lo rende un film salutare per questi anni così sotto pressione. In un’era in cui tutto deve essere costantemente esplicitato, ribadito e sottolineato, in cui il valore più alto dell’opera d’arte sembra risiedere nel suo essere inequivocabile e non offensivo, Baci rubati è invece contraddittorio e indefinibile: indubbiamente malinconico ma anche vitale, i due poli opposti che muovono Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud, corpo atemporale e puro cinema, nel suo moto incessante e spesso sconclusionato. E ancora: in un film che appare dominato da uno sguardo maschile (dalle battute grevi dell’ufficiale che paragona lo sminamento al corteggiamento fisico di una donna alle carezze non richieste del laido commerciante alle sue commesse fino alla normalizzazione della prostituzione e a una caratterizzazione moralmente ambigua del cliente omosessuale che si rivolge all’agenzia Blady per trovare l’amante scomparso), sono i personaggi femminili, pur apparentemente presi in mezzo a una dicotomia “maman/putain” il vero motore della storia: loro a decidere quando lasciar succedere qualcosa, a trovare il mcguffin per riallacciare il legame, a usare uno di quei segni del moderno a proprio vantaggio, con Christine che stacca il cavo della tv per poter costringere Antoine a tornare da lei. Rifugiandosi idealmente nel passato, Truffaut realizza uno dei suoi film più evoluti, in grado di giocare con meccanismi narrativi e produttivi attuali ancora oggi, dalla saga all’alter-ego registico. E dunque, che cosa resta dei nostri amori? Un’eredità, spesso tradita, che invita a seguire il proprio tempo interiore senza aderire alle mode del momento. A non sottovalutare la bellezza del gesto e a non sacrificarla sull’altare del messaggio. Aspetto che il Baci rubati di questi anni arrivi a sorprendermi con un nuovo, meraviglioso anacronismo.