Negli anni Ghost in the Shell ha assunto la forma di un autentico fenomeno transmediale, articolato com’è fra il manga originale di Masamune Shirow, il dittico cinematografico qui in analisi, la serie televisiva Stand Alone Complex, le uscite OAV e i vari videogame del caso. Eppure, anche in questo marasma di stimoli e informazioni, i due lungometraggi diretti da Mamoru Oshii mantengono una loro unicità e finitezza, in grado di riverberarne la forza e l’importanza.
Del primo Ghost in the Shell, si sa, conta innanzitutto il valore storico, soprattutto in rapporto a quell’Occidente che lo ha innalzato a baluardo, a fronte di una risposta più tiepida in patria, ponendolo in quanto avanguardia di un’animazione giapponese “alta” che fino a quel momento aveva conosciuto i soli fasti di Akira (ancora poco si sapeva di quanto, nello stesso periodo, si realizzava in casa Ghibli o Gainax). Uscito nel 1995, il film è passato negli anni attraverso un complesso meccanismo di metabolizzazione, che ne ha fatto un titolo iconico sebbene a parte rispetto al corpus dell’animazione giapponese tout-court; nel 2008 è stato rielaborato con nuovi effetti speciali digitali, dando vita alla versione 2.0 che Dynit e Nexo Digital hanno poi portato in Home Video e in sala. Il che, paradossalmente, non fa che confermare l’animo inquieto di un’opera in perenne divenire, sebbene così fortemente iscritta nel suo tempo. Figlia dei movimenti cyberpunk, Ghost in the Shell si offre in quanto gioco di rifrazioni fra elementi uguali che, proprio in virtù del loro essere multipli, ragionano e si attaccano pervicacemente a qualsiasi elemento possa garantire loro lo status di esseri viventi. Shirow prima e Oshii dopo ragionano nel merito delle neonate (per l’epoca) intelligenze artificiali e delle nuove frontiere offerte dalla robotica e dal cyberspazio, dove il corpo di carne cede il passo a quello sintetico attraverso la creazione di ibridi uomo/macchina che non sono più esseri umani (il corpo sintetico è di proprietà del governo o della ditta che l’ha realizzato e con esso le memorie che immagazzina) ma non sono ancora creature nuove. Rivisto oggi, Ghost in the Shell cattura non tanto per le implicazioni filosofiche della storia, dal sapore un po’ desueto rispetto a un mondo che nel frattempo si è realmente globalizzato e informatizzato ma “frenando” gli utopismi e i timori di chi presagiva un nuovo stadio evolutivo nella scala del cammino sociale; colpisce invece lo stile impresso da Oshii alla vicenda, che si configura attraverso un gioco di corpi sintetici eppure scomposti, trasparenti rispetto allo scenario metropolitano, come una danza di ombre fluttuanti in uno spazio che è fisico ma allo stesso tempo virtuale (e l’inquadratura finale con la città che diventa paradigma del cyberspazio è sintomatica di questi intenti). Resta ancora una certa iconografia “pesante” da immaginario meccanizzato e che non ha nemmeno il pretesto della forte visionarietà carnografica del già citato Akira, ma mediata da una leggerezza e fluidità dei movimenti (ripresa intelligentemente dalla saga di Matrix) che peraltro oggi fa emergere più di ieri la nota action del racconto poliziesco, in passato meno considerata di fronte ai ritmi meditativi che ormai conosciamo come tipici della narrazione prediletta da Oshii. Il gioco dei rimaneggiamenti digitali, peraltro, testimonia la volontà di dare a un tempo consistenza e evanescenza a queste figure in cerca di un ruolo, in un continuo rimpiattino fra il ricercato fotorealismo (e dunque la perfetta riproducibilità del vero) e lo straniamento per la vertigine che la nuova grafica produce in rapporto alle scene in animazione tradizionale. L’oscillazione perpetua fra pesantezza e leggerezza di toni e figure si ritrova nel mix di tradizione e modernità della memorabile colonna sonora di Kenji Kawai e confluisce così nei dubbi esistenziali dei protagonisti e nel gioco dei sentimenti impliciti e mai dichiarati che legano tra loro i personaggi.
Il passaggio al sequel Ghost In The Shell 2 – Innocence (nuovo titolo italiano rispetto al precedente Ghost in the Shell - L’attacco dei cyborg) testimonia quindi la raggiunta maturità dell’idea: nel riprendere le fila del discorso a quasi dieci anni di distanza (il film è del 2004), Oshii può infatti liberare la storia dalle derive più fisiche per abbracciare uno spazio che è tutto mentale. Il film assume così una qualità onirica, con una CGI molto più pertinente alla ridefinizione di uno scenario metropolitano che è anche e soprattutto una proiezione di un inconscio collettivo ormai alla deriva. Anche il discorso filosofico si ispessisce, e se la presenza dei dialoghi si fa più pregnante nella ricerca di stimoli dichiaratamente letterari e spirituali, pure non disperde quella leggerezza malinconica, propedeutica al racconto di uomini soli e inquieti di fronte alla prospettiva di un mondo i cui termini non sono chiaramente definibili. La ricerca, ancora una volta, investe ogni possibile implicazione dello stare al mondo, incluso ciò che definisca l’essenza della vita o la cognizione del sé, ma senza dimenticare derive più squisitamente politiche (ed economiche) sulle forze che regolano le dinamiche della società presente e futura. Oshii prende in mano il racconto, sceneggia a partire da una sottotrama minore del manga di Shirow e sperimenta loop narrativi, ralenti che raggelano spazi e personaggi, improvvise esplosioni d’azione che scompongono il ritmo, e dona alla città una qualità lisergica, oppiacea, che tara il tono di una vicenda sognante. In questo caso l’immersione è più forte, meno mediata dalle iconografie del tempo, perché non direttamente fantascientifica quanto prettamente esistenziale, e anche lo spettatore odierno più interfacciarsi ai dilemmi e al senso di alienazione che avvolge i personaggi senza dover chiamare in causa le correnti creative del caso.
Certo, a fronte di cotanta ambizione, nulla vieta di considerare i due capolavori da un punto di vista meramente industriale, in quanto polizieschi costruiti attraverso un lavoro di detection molto preciso, pur con tutte le concessioni all’autorialità del regista. E’ la grande forza di un racconto che sa unire arte e spettacolo, offrendosi in quanto paradigma delle possibilità di un’animazione che mira alto nei contenuti, ma è sempre e comunque immediata nella sua potenza visiva.