Ghostbusters 3D
Accolto nell'ira del fandom, il reboot tanto vituperato si rivela una commedia modesta e sottotono, indecisa tra la fedeltà al modello e un timido istinto di rinnovamento.
Nell’era 2.0 dell’intrattenimento globalizzato diventa sempre più difficile trovare una differenza tra la categoria di spettatore e quella di consumatore, specie in un’arte industriale quale è il cinema.
La distinzione potrebbe sembrare pleonastica, ma in realtà sottintende un aspetto sostanziale: tra spettatore e autore vige infatti un rapporto a senso unico, verticale, nel quale il primo è chiamato a ricevere, o meno, un certo prodotto culturale; un consumatore invece compra un risultato, compra un mezzo per soddisfare un determinato bisogno, e se il prodotto non risponde alle aspettative promesse è libero di riportarlo indietro, di questionarne la fattura, l’utilità. Il cliente ha sempre ragione, e può dialogare in maniera orizzontale con il venditore se nel prodotto c’è qualcosa che non va.
Il pregiudizio che ha anticipato l’arrivo del nuovo Ghostbusters ci dice molto di come questa tassonomia commerciale sia venuta meno, disgregata da quella rivoluzione digitale che ne ha amplificato e facilitato le già presenti criticità. Perché se già Sherlock Holmes dovette tornare in vita per volere dei lettori, se già nel 1987 Stephen King poteva creare il personaggio di Anni Wilkes, resta il fatto che oggi il fandom ha raggiunto una rilevanza inedita, propria di chi non vede in un film un contenuto offerto da un autore, quanto piuttosto l’ennesimo tassello di un patrimonio iconografico che gli appartiene direttamente. Del resto il fandom digitale opera nel mondo di oggi con una facilità prima inimmaginabile, assumendo sempre più le vesti di un consumatore coinvolto in un rapporto orizzontale con l’oggetto filmico, che quindi diventa a tutti gli effetti una merce da “soddisfatti o rimborsati”.
E’ un altro colpo al concetto, almeno in parte anacronistico, di autorialità, considerato come ormai l’intrattenimento occidentale sia sempre più nelle mani di poche, incorporee, multinazionali. Star Wars, i cinecomics, i Ghostbusters, non sono solo prodotti che ormai il pubblico si sente di possedere, ma appaiono come creazioni totalmente industriali. In assenza di quella che a tutti gli effetti appariva come una voce narrante (più o meno libera di agire che fosse), molto cinema contemporaneo arriva allo spettatore come una confezione impersonale, gestita da un colosso industriale da cui, in quanto clienti consumatori, ci si aspetta di essere ascoltati, seguiti, accontentati. L’errore capitale commesso da chi ha messo in campo questo reboot è allora quello di aver totalmente ignorato i nuovi meccanismi di cui sopra, pretendendo di offrire ad un fandom estremamente radicato un prodotto ideato verticalmente. Di conseguenza il film è stato quindi recepito dai suoi potenziali spettatori come un’imposizione scriteriata intenta ad usurpare una tradizione condivisa.
Il risultato, come spesso accade nell’ipocrisia del mondo digitale, è degenerato presto in prese di posizione sempre più radicate, sfociate in diversi attacchi mediali alle quattro protagoniste del film. Non sono bastati neanche i cameo di Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson, Annie Potts e Sigourney Weaver a legittimare un’operazione che, a conti fatti, è sembrata assumere le vesti di un ingenuo agnello sacrificale lasciato solo nella fossa dei leoni. Esito paradossale, specie se mettiamo a confronto il peso storico del film capostipite con l’innocua modestia di quello diretto da Paul Feig – nome non qualunque e creatore, tra le altre cose, di quella perla che è Freaks & Geeks.
Reinventato al femminile, ricostruito su quattro nuovi personaggi molto più scientifici e meno baldanzosi dei precedenti, il Ghostbusters di Feig scarta la dinamica del passaggio di testimone e cerca di ritagliare per le sue protagoniste una dignità apparentemente autonoma, ma nei fatti fortemente derivativa. Le acchiappafantasmi di Melissa McCarthy, Kristen Wiig, Kate McKinnon e Leslie Jones sono infatti donne intraprendenti alle prese con un mondo maschile che le respinge, non accettandone le capacità (e che giustamente il film riduce ad una massa di fantocci inabili). Attorno a loro però si muove un film intimorito dalla sua stessa tradizione, troppo timido per soverchiare davvero l’originale e troppo immediato per istaurare con esso un rapporto che vada oltre l’omaggio facile e nostalgico. Considerato nel suo insieme e non solo per la felice idea di adottare il punto di vista di un gruppo di donne “in carriera”, questo Ghostbusters rivela un fiato cortissimo, del tutto privo di quell’anarchia demenziale, e irresistibilmente comica, che ha dato vita all’originale. Si ride a volte nel corso della visione, ci si riesce anche a legare, almeno un poco, a questi nuovi strambi personaggi, ma alla fine dei giochi ci si lascia alle spalle un film bloccato nell’innocua landa tra referenza e innovazione, che tentenna su entrambe le strade senza prendere realmente posizione. Non sarebbe stato meglio, a questo punto, sfruttare le nuove protagoniste per qualcosa di radicalmente diverso?