The Girlfriend Experience - Stagione 1
Continua con un'altra gemma la storia d'amore tra Steven Soderbergh e la serialità televisiva
In uno degli episodi più belli della prima metà di stagione di The Girlfriend Experience si assiste a una scena di assoluta potenza visiva, emblematica di tante delle cose che la serie ha detto e dirà.
Due donne sedute ad un tavolo una di fronte all’altra, inquadrate con un campo totale posto così lontano da farle sembrare delle sagome, soprattutto grazie al controluce abbacinante provocato dall’enorme vetrata alle loro spalle. Due figure femminili rese anonime da scelte registiche radicali, trasformate in silhouette e incorniciate dal perimetro di una porta che le tiene bloccate come in un recinto, le mette faccia a faccia, ingabbiate nella loro solitudine. Ad unirle è un uomo, Ryan, che di una è il marito e dell’altra l’amante, o meglio il cliente.
Sebbene il loro rapporto di potere sia profondamente sbilanciato – la moglie di Ryan ha chiesto a Christine un incontro per chiederle di sparire dalla loro vita, di non farsi mai più vedere, promettendole in cambio qualsiasi cifra – le due donne dirette dalla giovane e talentuosa Amy Seimetz vengono presentate come soggetti simili, affini, universalizzabili, parimenti in una condizione di minorità – prima di tutto di genere – in un mondo in cui più si sale di classe sociale e più la donna appare impotente, oggetto del desiderio o dello sguardo, come un’ottima portata al ristorante o un’auto sportiva.
Christine è la protagonista di The Girlfriend Experience, serie prodotta da Steven Soderbergh e molto lontanamente ispirata all’omonimo film dell’autore di Sesso, bugie e videotape.
Starz, che la produce e trasmette, ha dichiarato l’intenzione di farne un progetto antologico e ha affidato lo sviluppo creativo a Lodge Kerrigan e Amy Seimetz, registi e sceneggiatori molto in vista nel circuito indipendente americano, quantunque poco noti al grande pubblico. A completare il quadrato creativo c’è Shane Carruth, figura polivalente del cinema indie che in questo progetto si occupa della colonna sonora (come vedremo fondamentale) ma che ha dimostrato con Primer e Upstream Color di essere anche un regista eccezionale.
Sin dai primi episodi The Girlfriend Experience manifesta una personalità decisamente spiccata, figlia di un’identità fortemente autoriale in cui Kerrigan e Seimetz si alternano alla regia e alla sceneggiatura con un approccio molto diverso da quello tradizionalmente adottato dalla serialità televisiva ,e molto più vicino al cinema indipendente.
Bastano pochi episodi infatti per certificare una coerenza linguistica che ha pochi precedenti, in cui il rapporto tra il soggetto protagonista e lo spazio che lo circonda costituisce spesso il cuore del racconto, prima ancora del plot. Si potrebbe dire che la narrazione stessa sia portata avanti non tanto dalla trama (che sia verticale o orizzontale) ma dalla messa in scena che di volta in volta si fa portatrice di istanze comunicative e narrative specifiche. Sono le forme, i suoni, l’angolazione e la tipologia delle inquadrature a mettere a fuoco i concetti principali, a dichiararli in maniera più o meno sottile; è attraverso il linguaggio cinematografico e i suoi codici specifici che emergono le questioni trattate dalla serie, con la trama di volta in volta al servizio della bifronte istanza narrante.
Sono le grandi strutture ad anticipare ciò che rivelano i dettagli, o forse è solo una volta capito il senso di questi ultimi e delle scelte linguistiche che li determinano che emerge in superficie il senso profondo di un formato così strano, così anomalo rispetto al resto dei racconti televisivi.
The Girlfriend Experience infatti consta di tredici episodi dalla durata di venticinque minuti ciascuno, una tipologia narrativa che per un drama rappresenta un’eccezione, quantomeno nel contesto americano. La forma però è sempre sostanza nei prodotti culturali e mai come in questa serie è nelle strutture formali che va cercato il senso del racconto.
La storia di Christine, infatti, non necessita di anthology plot consistenti, prediligendo un incedere narrativo sempre molto agile e articolando tra loro episodi dalla durata così breve senza che appaiano in alcun modo sacrificati. Al contempo però si tratta di un racconto che ha bisogno di essere percepito non tanto come un tutt’unico, quanto come una serie di pezzi in sequenza, anche nel caso in cui questi vengano fruiti senza soluzione di continuità. Perché il racconto di Kerrigan e Seimetz si dipana come una partita di boxe in cui ciascun episodio corrisponde a un round nel quale vengono sferrati colpi di grande efficacia, grazie anche all’intensa e mai banale performance di Riley Keugh.
A differenza del pugilato però, qui la gestione dei segmenti narrativi è molto più libera, e produce un contrasto straniante tra il formato agile e un incedere narrativo episodico lento e riflessivo. L’ellisse costituisce la soluzione retorica privilegiata, facendo dei singoli episodi quasi dei mini-racconti a tesi, i quali non si legano tanto dal punto di vista narrativo (spesso ci sono iati temporali consistenti non segnalati, scarsa consequenzialità drammaturgica o subplot lasciati alle spalle senza risoluzione) quanto da quello concettuale, facendo della protagonista e del suo percorso una sorta di castello di carte a cui di volta in volta viene aggiunto un elemento, una riflessione che solo nel finale mostrerà il suo ruolo all’interno del mosaico.
Dal punto di vista del lavoro su Christine, la prima cosa lampante è la tendenza degli autori a mostrare la protagonista in un eterno presente, immersa in un’azione sempre in divenire, dove il qui e ora è l’unica cosa che conta, dove non c’è neanche l’ombra di un ieri e dove il domani non è nemmeno immaginato. Si tratta di un presente freddo, asettico, in cui gli autori gettano la protagonista senza coordinate, perennemente in balia di spazi fatti di vetro e metallo, architetture geometriche impermeabili, disturbanti e sempre irrimediabilmente indecifrabili, inconoscibili.
Totalmente disinteressata a comprendere il mondo ipocrita e raggelante in cui è immersa, Christine tenta di guardare dentro l’unica cosa che ha la possibilità di decrittare, se stessa, sfruttando le qualità riflettenti delle glaciali superfici che la circondano. Kerrigan e Seimetz scelgono di adottare un registro stilistico caratterizzato da una focalizzazione quasi totalmente interna, dove l’uso della soggettiva e della semi-soggettiva mettono lo spettatore se non nella testa della protagonista quantomeno dietro la sua spalla, decretandolo testimone costante del di lei eterno chiedersi: chi sono io?.
Assume allora un’importante centralità la figura di Shane Carruth, autore di una colonna sonora elettronica da brividi, che nelle parti musicali ricorda il Cliff Martinez di The Knick (seppur in chiave più minimale), ma che dà il meglio di sé nella fase rumoristica, dove la crescita delle sonorità possiede un carattere esclusivamente emotivo e in cui ogni suono è riprodotto con un’intensità e una qualità anomale – dal chiudersi della porta fino agli (altrimenti) impercettibili rumori delle scene di sesso – tanto da risultare dei suoni mentali prima ancora che suoni reali.
Andando in profondità nella vita di Christine non è possibile non far caso alla tipologia di rapporti che la ragazza intrattiene, i quali sono tutti di superficie, quasi interscambiabili, tutti finalizzati a un interesse esclusivamente personale, sintetizzabile in una parola: autodeterminazione.
Dietro la grande domanda che soggiace all’intera serie (chi sono io?), si nasconde un passato indecifrabile fino al penultimo episodio, un mostro dal quale la protagonista scappa inesorabilmente, un male da debellare prima di tutto da dentro se stessa. Capiamo subito che per liberarsene deve agire sul controllo, sulla capacita di scegliere, di decidere della propria vita e sono allora proprio il sesso e la sessualità che da questo punto di vista rivestono un ruolo determinante, non solo metaforicamente.
Home è l’episodio che lacera il velo che occultava il mondo nascosto legato al passato di Christine; uno spazio, quello della famiglia, della casa d’origine, dell’adolescenza e delle paure ataviche della protagonista, in cui risiedono molte risposte alle sue azioni e più in generale le ragioni che l’hanno portata verso il percorso che conosciamo. A casa Christine ci torna per l’anniversario dei genitori, accompagnata dalla diffusione virale del video amatoriale in cui fa sesso con un cliente che un hacker, utilizzando il suo indirizzo, ha inviato a tutti i suoi contatti, famiglia compresa.
Nel ritorno a casa il video non si vede mai, è spesso assente persino dalle conversazioni, ma la sua presenza è per questo ancora più palpabile, quasi assordante nel festival di ipocrisia e malelingue che dai genitori va ai loro amici e finisce con la sorella, personaggio complesso e ambivalente, interpretato non a caso da Amy Seimetz. Christine si vendica nel migliore dei modi possibile ripagando la propria famiglia con la stessa moneta attraverso un discorso alla festa in cui dietro alle parole “è solo grazie a voi che sono diventata quella che sono” si nasconde tutta la violenza di una figlia che gioca con il senso di colpa dei genitori, sapendo di colpirli nel vivo.
Dopo un episodio del genere non manca che il finale a chiudere un discorso di grandissima complessità e ambiguità, a lanciare la protagonista verso una vita che finalmente sa di essersi scelta, dove le sue capacità vengono riconosciute e apprezzate e in cui si sente a casa molto più che tra i suoi familiari. Un’esistenza in cui ha il totale controllo ma dove non esiste alcun rapporto reale se non quello con il proprio corpo, coltivato in solitudine.
Simbolo adamantino di questo concetto è il role play che riempie interamente l’episodio finale, in cui Christine, si libera ed emancipa definitivamente dai traccianti dello sguardo altrui, smette di essere vittima del loro giudizio, e da oggetto scopico diventa finalmente soggetto guardante, maschera di teatro attiva e propositiva, in un ballo in costume nel quale realtà e finzione perdono totalmente i loro confini.