Logan Lucky
Una storia d’amore tra Soderbergh e il cinema che trasmette, ancora una volta, il piacere infinito di fare film.
Steven Soderbergh è un regista a cui piace far cinema.
Sembra un inutile pleonasmo certo, eppure da Sesso, Bugie e Videotape fino a Logan Lucky, la prima sensazione che emerge dalla sua filmografia è il piacere infinito di giocare al cinema, di scrivere, di mettere in scena, perfino di montare e di concepire film: pensare in grande senza mai sentirsi grande, arrivare al cuore stesso delle immagini fingendo un cinema medio che pare somigliare a tutto ma si scopre alieno a ogni cosa. Si diverte, Soderbergh e si è sempre divertito. E’ l’autore che più ha messo in discussione qualsiasi vecchia politica degli autori, perché i suoi film rifuggono qualsivoglia intellettualismo o gabbia in cui incasellarli. Un trasformista, abbiamo detto una volta - per come riusciva a cambiare pelle di film in film - un dissidente, diremmo oggi - per come resiste alle mode e regala un cinema ludico e politico restio ai compromessi. Soderbergh mastica film e produce film, perfino quando fa tv. Annuncia un addio al grande schermo per riprendersi dai suoi effetti collaterali salvo poi tornarci quattro anni dopo, reclutando una squadra di sempliciotti imbruttiti e magnifici, lontani anni luce dal fascino cool di Clooney, Pitt e compagnia bella - Logan Lucky si diverte a sbeffeggiare, prima di tutto, proprio la trilogia di Ocean.
Daniel Craig diventa la simpatica canaglia biondo platino con cui dimenticare 007; Channing Tatum il corpo attoriale perfetto con cui esplorare le superfici dell’America operaia che deve risvegliarsi dal sonno della crisi economica; Adam Driver, infine, la faccia di pietra, il residuo slapstick, l’eroe che ha combattuto per il suo paese e ha perso un braccio (una mano direbbe lui). Ancora una volta Soderbergh ritorna alla rapina perché consapevole che l’heist movie è l’indice popolare del vero, grande sogno americano: la speranza di un riscatto in grande stile, dopo la fine di tutti gli ideali.
Logan Lucky è dunque l’oggetto filmico irresistibile che seduce dall’inizio alla fine perché entra nella sublime idiozia dei circoli chiusi, dei tempi morti, dei climax capovolti in anticlimax. Perdenti del profondo Sud che si arricchiscono come nuove, sguaiate incarnazioni dell’Eroe americano. Qui ci sono macchine e Miss, reginette e carcerati, padri di famiglia e fratelli sgangherati alla ricerca di morali fasulle per difendersi dal male. E l’America, in fondo, sembra sempre la stessa, solo che il nuovo cowboy è l’idiota che conserva l’amore per il prossimo, che dona gratuitamente denaro ad inconsapevoli aiutanti, che si scopre innocente di fronte a un mondo che corre troppo in fretta. In un attimo la grande, seducente miscela soderberghiana assume tutti i crismi di un vero e proprio film di denuncia. Che denuncia, prima di tutto, se stesso e la sua totale estraneità al mondo che lo circonda, come a dire: evviva gli idioti, evviva i poveracci, evviva chi rinasce dalle proprie ceneri e reinventa il mito del fuorilegge dal cuore d’oro.
Evviva Steven Soderbergh! aggiungiamo noi.