Giro di lune tra terra e mare
Da Agrippina e Nerone fino al nostro presente, una preziosa, insolita riflessione al contempo realistica e visionaria sulle terre vulcaniche di Pozzuoli
Quella di Pozzuoli è una terra che trema: vulcanica, instabile, percorsa da continue scosse di terremoto. Anche Giro di lune tra terra e mare, che vuole raccontare appunto questa terra – luogo di nascita del regista Gaudino – è un film fatto di un magma ribollente e in costante movimento.
Si percepisce un sapore di neorealismo e cinéma vérité nel racconto della quotidianità travagliata della famiglia Gioia: continui traslochi in edifici sempre pericolanti tra una scossa e l’altra, sullo sfondo una città ormai ferita e lacerata, dove la natura sta già riappropriandosi degli spazi abbandonati. Le tensioni familiari – la severità del pater familias, vecchio pescatore ancorato a schemi di pensiero obsoleti, la forza e quasi l’arroganza del figlio adulto che gli si oppone – vengono sviscerate, nel loro portato atavico e universale, con la potenza e la drammaticità di una tragedia greca (e, forse, tenendo a mente la riflessione verghiana de I Malavoglia).
A tutto questo il regista alterna con gusto visionario e surreale immagini frammentarie, incerte e sfuggenti di un passato che vive ancora nel labirinto di vicoli di Pozzuoli, per raccontare – tra storia e leggenda - i personaggi che nel corso dei secoli hanno abitato questa città densa di storia o le campagne che la circondano: da Agrippina – che qui venne uccisa dai sicari mandati dal figlio Nerone – al compositore Pergolesi, morto ventiseienne e seppellito in una fossa comune, a dispetto della notorietà internazionale che la sua musica avrebbe poi raggiunto.
E’ Gennarino, il più piccolo della famiglia Gioia, a guidare lo spettatore nel dedalo di case e strade, passato e presente, che si dipana come per magia in questo spazio filmico senza confini: il ragazzino e i suoi compagni - una banda di monelli sempre in cerca di oggetti dimenticati tra gli edifici diroccati - si imbattono nel giovane Pergolesi seduto al suo scrittoio, tirano sassi alla Sibilla Cumana scovata nel buio del suo antro, e inseguono Maria “La Pazza”, coraggiosa combattente medievale che difese Pozzuoli dagli attacchi nemici.
Le suggestioni che Gaudino miscela e fonde in maniera audace e tuttavia senza mai trovare ostacoli passano anche attraverso il linguaggio: italiano, dialetto e latino, per dare vita a una romanità cupa, opulenta e misteriosa non dissimile da quella del felliniano Satyricon. E’ attraverso il colore, il montaggio, il ritmo che il regista pone una necessaria cesura tra le immagini del presente (più dense, materiche, nude) e quelle del passato (visioni evanescenti, grumi di sogni, echi di voci); ma è una cesura che tuttavia si avverte solo quel tanto che basta a orientarsi in un racconto multidirezionale, e non mette mai in crisi l’unitarietà estetica del film.
L’opera di Gaudino, una delle rare incursioni nella fiction – sebbene sui generis - all’interno di un percorso che privilegia il documentario, è un esempio rarissimo, insolito e prezioso di sintesi di fascinazioni molto diverse tra loro per segno e natura: la volontà di celebrare e indagare la propria terra con piglio fortemente realistico, inquadrando le cose da un punto di vista anche sociale e politico; la seduzione del fantastico e dell’onirico che però è al contempo riflessione storica e anche folkloristica; la tendenza ad esplorare in senso espressivo tutto il potenziale estetico dell’immagine filmica senza tuttavia tradire, per così dire, la sostanza e l’essenza del reale.