The Greatest Showman
Inno alla spettacolarizzazione della vita, il film di Michael Gracey è un caleidoscopio di visioni costruite sullo straordinario physique du role di Hugh Jackman.
Stati Uniti, metà Ottocento. Phineas Taylor Barnum è il figlio di un sarto che, alla sua morte, lascia il bambino privo di parenti. Per lui si aprono le porte di una triste infanzia dickensiana, tra piccoli furti e sogni ad occhi aperti. Sì, proprio sogni ad occhi aperti. Perché se c’è un campo in cui P.T. Barnum eccelle è proprio quello dell’immaginazione. Il ragazzo inizia a credere nel sogno americano e a percorrere il binario dell’ascesa sociale, che lo porterà al traguardo della fama e della ricchezza internazionale. Nato in condizioni poco agevoli, Barnum non ha mai considerato la povertà come un freno al raggiungimento dei propri obiettivi ma, al contrario, come lo stimolo per creare dal nulla la vita che ha sempre sognato. Utilizzando la fantasia per plasmare il suo mondo come un pezzo di creta, colui che sarebbe diventato il più grande showman ed impresario di tutti i tempi si indebita fino al collo per trasformare la sua visione in realtà e riesce persino a risorgere dalle sue ceneri, spingendo sempre il suo sguardo al di là rispetto allo steccato a cui si ferma quello della gente comune.
Cappotto rosso, cilindro e bastone, Barnum si muove in preda ad una danza forsennata, dentro un tendone colmo di spettatori deliranti. Una assai variegata compagnia di teatranti lo accompagna ad ogni nuova pazzia ed anima la scena. The Greatest Show on Earth (come viene ribattezzato il suo spettacolo) riunisce non soltanto un’esposizione di stranezze e rarità raccolte in giro per il mondo ma soprattutto un gran numero di freaks: nani, donne barbute, giganti e gemelli siamesi.
Ogni elemento di The Greatest Showman del giovane Michael Gracey è costruito per esaltare il dinamismo di Hugh Jackman (che già in passato ha dato prova delle sue superbe doti da entertainer), tra i migliori attori contemporanei ad utilizzare il proprio corpo come oggetto scenico. Dirigere un film del genere, che vanta riflessioni legate all’ambizione di successo, al contrasto tra spettacolo e nobilitazione dell’arte e alla tradizionale scalata nella società americana – elementi che, comunque, restano secondari rispetto al desiderio di Gracey (e di Barnum) di costruire uno spettacolo bigger than life – puntando sulla rassicurante presenza di Jackman alla gestione del timone deve aver fugato una gran quantità di dubbi. Perché l’attore australiano è, prima di tutto e come già detto, un maestoso performer. Logico che un tale approccio al personaggio di Barnum influenzasse anche il genere di riferimento del film, che si distacca dal tradizionale biopic per trasformarsi in qualcosa che è «cinque volte più grande», per citare proprio l’impresario circense.
Se le maggiori debolezze del film risiedono nella gestione dell’arco di trasformazione dei personaggi secondari e degli aspetti più interiori dei protagonisti, è pur vero che è nel raccontare attraverso immagini, musica e ballo che The Greatest Showman raggiunge la grandezza spettacolare che si prefigge, attraverso la figura di un personaggio che non esita dinnanzi alle innumerevoli difficoltà che gli si pongono davanti e che diventa sintesi di elementi contraddittori. Per arrivare al successo, Barnum sfrutta il carattere esotico di diversità e deformità, riuscendo a dare, al contempo, anche dignità nuova ai freaks che, per la prima volta, salgono sul palcoscenico fieri di mostrarsi.
Insomma, niente di nuovo sul fronte musical, ma una generosità ed una necessità di espressione che, attraverso l’eccesso e l’eterogeneità della sua visione, non teme la caduta rovinosa ma riscalda ed abbraccia come solo un cappotto fuori taglia sa fare.