The Guilty
L’esordio di Gustav Möller è un disturbante concentrato di tensione che sfrutta pienamente la potenza teorica e pratica del fuori-campo.

Spesso quando si parla di cinema e serie televisive si ricorda una delle principali regole del racconto audiovisivo: show don't tell. Questo suggerimento è sicuramente uno dei più saggi, soprattutto per una forma espressiva che, per dirla con Pasolini, ha il compito di mettere in immagini una «struttura che vuole essere un'altra struttura». Sono quindi le immagini ad avere il compito di raccontare, anche quando sembrano non raccontare nulla.
L'apparente racconto del nulla, dal punto di vista mostrativo, è esattamente il punto centrale di The Guilty, lungometraggio d'esordio di Gustav Möller. L'escamotage narrativo del film consiste nel raccontare Asger, un poliziotto di Copenaghen che, per via di un'indagine interna che lo vede coinvolto come accusato, è costretto a svolgere il ruolo di centralinista nella stazione di polizia. Durante il turno di lavoro però riceve una chiamata da parte di una donna, che attraverso una serie di giri di parole gli fa capire di essere stata rapita, di essere sotto il controllo del suo sequestratore e di aver bisogno d'aiuto. Il film procede fino alla fine nella stessa ambientazione, con la macchina da presa che inquadra sempre e solo il protagonista (spesso esclusivamente il suo volto), non mostrando nulla di ciò che succede ma lavorando su una totale focalizzazione interna tale da sovrapporre il punto di vista di Asger con quello dello spettatore, tenendo così quest'ultimo incollato allo schermo dall'inizio alla fine.
Il primo e più immediato paragone che viene in mente è quello con Locke, film del 2013 scritto e diretto da Steven Knight (autore di Peaky Blinders) e interpretato da Tom Hardy, il cui personaggio principale anche in quel caso era il centro di un film in cui l'azione si svolgeva da un'altra parte. Quelle di The Guilty sono immagini che raccontano, dicevamo, perché consapevoli che una delle più importanti virtù del cinema consiste nella capacità di raccontare il non mostrato, spingendo lo spettatore a immaginare ciò che non viene rappresentato all'interno dell'inquadratura. Möller fa quindi un discorso radicale sull'importanza del fuori campo al cinema e il suo film si presenta come una vera e propria lezione per tutte quelle opere nelle quali si percepisce la vana illusione di creare tensione e paura attraverso la messa in scena esplicita di momenti di grande impatto e brutalità, che in molti casi sarebbero più efficaci se sottratti allo sguardo dello spettatore.
The Guilty è un lavoro scritto in maniera certosina, capace di costruire un'altissima tensione sin dall'inizio e mantenerla fino alla fine, gestendo con perfezione alcuni disturbanti twist narrativi che, sia lo spettatore che il protagonista, possono solo ascoltare, amplificandone l'orrore nelle rispettive immaginazioni. Sotto questo punto di vista il film di Möller (attualmente in lizza per entrare nella cinquina finale agli Oscar come miglior film straniero) rappresenta una sorta di punto di incontro tra un film e un podcast: come il primo ha il linguaggio, la presenza di immagini che mostrano i corpi degli interpreti e un formato evidentemente cinematografico; come il secondo ha la capacità di tenere alta la tensione dello spettatore (che in questo caso è anche, e forse soprattutto, ascoltatore) aumentando a dismisura il suo coinvolgimento stimolando ripetutamente la sua fantasia.