Wildlife
Adattando Richard Ford, Paul Dano esordisce dietro la macchina da presa con un dramma domestico di tensioni trattenute e lacerazioni interiori, che unisce il disfacimento famigliare al racconto di formazione.
C’è qualcosa, nella scena iniziale di Wildlife, nel corpo a corpo padre/figlio, davanti al cortile di casa, mentre giocano a football, che sembra prepararci alle fratture imminenti che il racconto s’appresta a portare allo scoperto. Una sensazione di felicità apparente che dura pochi attimi, scivola nella stasi emotiva di fronte ad una villetta americana come tante e, nel momento in cui i due spariscono per qualche istante dall’inquadratura, un presagio di scollamento, come se una crepa potesse emergere da sotto la superficie. Sullo sfondo di questa America di facciata, di una provincia a prima vista idilliaca, datata 1960 e fatta, in realtà, di piccole convenzionalità borghesi opprimenti nonché di ruoli sociali normati, Paul Dano, al suo esordio dietro la macchina da presa, mette in scena un dramma domestico di tensioni trattenute e lacerazioni interiori, adattando il disfacimento famigliare à la Revolutionary Road al racconto di formazione del quattordicenne Joe (Ed Oxenbould), in precario equilibrio sugli squilibri dell’età e degli affetti, nel tentativo di crescere ed essere uomo.
Tratto dal romanzo omonimo di Richard Ford (1990) e co-sceneggiato da Dano insieme a Zoe Kazan, Wildilife è un film che si racconta piano, senza eccessi; lentamente fa implodere la serenità del nucleo familiare, ne sgretola le sicurezze e i sogni di benessere mentre, a fare da contrappunto simbolico al disastro dei sentimenti, un incendio, poco lontano, devasta i boschi del Montana e rende palpabile quel senso di precarietà del vivere e di minaccia costante.
Fin dalle prime battute l’unità della famiglia ci appare irrigidita nei codici del linguaggio e dei comportamenti; ci si riunisce decorosamente a tavola insieme, si ascolta alla radio il campionato di baseball… ma si ha l’impressione di intravedere delle ombre e percepire un sottile malessere pronto a travolgere tutti. La madre Jeanette (Carey Mullighan) è un ex supplente che ha rinunciato al suo lavoro per occuparsi delle faccende domestiche e seguire il marito, non sempre di buona voglia, di città in città, sempre più a nord - «ogni volta che ci spostiamo fa sempre più freddo» dice - in nome di una pursuit of happiness che sembra costantemente irraggiungibile; Jerry (Jake Gyllenhall) sognava di essere un giocatore di golf ma si trova a lustrare scarpe e pulire i campi dei ricchi, domandando al figlio cosa un uomo è tenuto a fare per occuparsi della propria famiglia secondo le norme morali e sociali del tempo, e un ragazzino, troppo sensibile per adattarsi ai desideri paterni e ai cambiamenti repentini dei genitori, osserva impotente lo sfaldarsi del proprio universo familiare che va in fumo: tutti imprigionati nei loro ruoli e nelle aspettative di qualcun altro, in una realtà dall’aria pesante, soffocante, al pari dell’incendio che divampa oltre l’orizzonte delle case. Quando Jerry perde il lavoro e decide di partire volontario per domare il fuoco il legame della coppia crolla, spingendo Jeanette a rifarsi una vita, uscendo dal grigiore delle mansioni di casa, cercando un lavoro, vestendosi elegante e frequentando un altro uomo, dinanzi allo sguardo dolente del ragazzo.
Wildlife è, di fatto, una struggle for life, che coinvolge tutti e tre i personaggi in egual misura - ognuno impegnato a trovare il proprio destino - ma dove il cambiamento cercato dagli adulti è la sola via di fuga da un’insoddisfazione latente, da uno scacco, da un senso di sconfitta eterna. Il paesaggio suburbano, con le montagne percorse da nuvole di fumo in lontananza, l’iconicità di certi luoghi e i cieli al tramonto, sembra contrapporsi alla grandezza delle aspettative e dei desideri umani. Se il fallimento del sogno americano comincia a sgretolarsi all’interno del nucleo familiare, come il cinema indipendente ci ha spesso ricordato, Paul Dano non forza la regia, la trattiene nel minimalismo del narrato, a una temperatura moderata, facendo esplodere solo la parte conclusiva. Tiene lo sguardo ad altezza del cuore e delle paure di un adolescente e ne fa un racconto sofferto ma composto, segnato da un’equidistanza tra dolore e amore. Ne fa un racconto di sentimenti in continua ebollizione, un racconto di solitudini domestiche e malinconie urbane, come dentro un quadro di Hopper. Non c’è punto di ritorno, non ci sono strade da percorrere per tornare a casa, nemmeno quando, finalmente, la stagione cambia e gli incendi si avviano a spegnersi; solo fughe, come quella di Joe, nella notte, verso nessun luogo preciso. Un po’ perso ma anche consapevolmente più maturo.
Il finale arriva, allora, come uno squarcio a illuminare il quadro scomposto delle loro vite, ormai irrimediabilmente segnate, regalando però l’emozione improvvisa di un bagliore di felicità ritrovata, anche solo per un momento, congelato per sempre nell’istante di una fotografia. Sotto le ceneri dell’incendio emotivo di questo dramma familiare c’è un’umanità pronta a guardare dritto di fronte a sé e a ricominciare a sorridere al divenire.
«Fire can be a positive force,
cleans the underwood
and helps forest to regenerate»