Hatching – La forma del male
L’orrore di crescere e lo scardinamento delle aspettative nel primo, promettente, lungometraggio di Hanna Bergholm.
Presentato in anteprima al Sundance e uscito ora nelle sale italiane, Hatching – La forma del male è l’opera d’esordio della regista finlandese Hanna Bergholm, che sceglie il genere horror per creare la sua interessante metafora sulla famiglia ai tempi dei social network.
Il canovaccio su cui costruisce la narrazione è quello del coming of age, con protagonista una ginnasta preadolescente, Tinja, che si ritrova inconsapevolmente imbrigliata nelle maglie del narcisismo digitale operato dalla sua famiglia borghese. La madre Äiti infatti, cura un blog di lifestyle con cui dà in pasto al suo pubblico la loro finta perfezione famigliare. Il fulcro delle dinamiche messe in scena è proprio il rapporto apparentemente idilliaco tra madre e figlia, in cui la prima cerca di sublimare i fallimenti della propria esistenza spingendo la seconda a ottenere i successi da lei mai raggiunti. L’azione si svolge in un sobborgo finlandese di case tutte uguali, e tutte perfette, dove il sole risplende in continuazione e i vicini salutano sempre; il contraltare ideale per le vicende orrorifiche che si svolgeranno dentro casa. A partire da quando Tinja raccoglie l’uovo di un corvo ucciso dalla madre e incomincia a prendersene cura, creando con esso un rapporto emotivo sempre più viscerale; ne nascerà una creatura chiamata Alli, con le sembianze di un uccello. Entra presto in scena, dunque, tutto un contesto inerente la maternità e le aspettative che vengono proiettate sulle donne fin dalla più giovane età; ma qui la cura assume una declinazione patologica, che conduce a una progressiva mutazione di Alli in doppelgänger di Tinja.
La creatura fantastica diviene ovviamente il mezzo attraverso il quale la giovane protagonista può esprimere la sua rabbia e la sua insoddisfazione più represse, scatenando una grottesca escalation di raccapriccio e terrore. Il doppio di Tinja scatena il disagio all’interno della dimensione domestica, portando alla disgregazione del nucleo famigliare e instillando dubbi e paure in ognuno dei suoi membri. In questo specchio aggressivo della natura più recondita della ragazzina ritroviamo l’essenza più estrosa di Hatching, in un’ibridazione dal sapore body horror che convince.
Il rapporto conflittuale tra le due figure femminili, madre e figlia, è archetipico e sfocia in una rassegnazione passiva da parte di Tinja, che accumula frustrazione dentro di sé per compiacere la madre vacua e superficiale. Le dinamiche stantie di una famiglia autocostrettasi alla felicità forzata vengono smascherate da Bergholm attraverso i meccanismi tipici del genere horror, nella consueta consapevolezza che il vero orrore è quello della società ipocrita e perbenista che vuole tutti vincenti, in una corsa senza freno verso l’eccellenza e il trionfo dell’apparenza. Gli intenti sono chiari, forse troppo chiari, ma la narrazione procede compatta, facendo ricorso a degli escamotage che si ripiegano sul raccapriccio e sulla ferinità.
Bergholm ha intuizioni argute, i cui riferimenti spaziano da Lynch a Cronenberg, facendo anche un’incursione nei territori del fantasy; il film, però, si perde nella sua accumulazione forzata di rimandi a qualcosa di più grande di lui, mettendo in campo più di quanto riesca effettivamente a rimasticare con intenzione e creatività. Una certa superficialità diegetica viene in parte compensata da un approccio alla regia funzionale, che prende a prestito la grammatica estetica della soap opera per concretizzare sfacciatamente la crasi tra narrazione e messa in scena. La vera mancanza che si avverte durante la visione è quella del coraggio di osare fino in fondo, spingendo realmente all’estremo un disagio che è, invece, solamente suggerito: le parti più violente sono relegate al di fuori dell’inquadratura, escludendo di fatto lo spettatore dalla dimensione realmente perturbante.
Hatching è un esordio che, nonostante le sue imperfezioni, riesce a catturare l’interesse e a far parlare di sé. Hanna Bergholm è una regista da tenere d’occhio e con buone aspettative, nella speranza di un secondo film che sia più a fuoco e, soprattutto, più personale, così come hanno saputo fare tutti quei registi che sono stati presi a riferimento per lo sviluppo di questo debutto riuscito a metà.