Dogs Don't Wear Pants
Un film che sovverte e diverte, disturbante e farsesco, tragico e strampalato, la scoperta tenera e scabrosa del potere taumaturgico della perversione.
Se si potesse sintetizzare Dogs Don’t Wear Pants in una singola immagine, questa sarebbe il freeze frame del volto ilare e beatamente sdentato del protagonista alla fine del film. L’espressione di un uomo che trova il sorriso ma porta addosso i segni dell’attraversamento del proprio dolore; una scena di gioia spiazzante, imprevedibile nella sua dolce amarezza. Il film, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2019, terzo lavoro firmato dal cineasta finlandese Jukka-Pekka Valkeapää - che già si era fatto notare a Venezia con i precedenti The Visitor e They Have Escaped - mostra le stesse ambivalenti sfaccettature. Un po’ dramma familiare sull’elaborazione del lutto e un po’ tragedia interiore che trova la sua catarsi nel mondo delle pratiche sadomaso, Dogs Don’t Wear Pants lascia man mano intravedere una vena romanti-comica, sottile e spesso trattenuta, che rende tutto ancora più grottesco e, a tratti, surreale. Un film in cui desiderio di amore, di morte, erotismo perverso, humor nero e innocente follia vanno a braccetto. Un film quasi dadaista, che non sa tenersi dentro un solo binario ma in cui il senso e la storia deragliano continuamente da parte a parte, attraverso i vari registri.
Juha (Pekka Strang) è un uomo che ha toccato il fondo. Vive una vita asfittica nella mancanza della moglie, morta per annegamento davanti agli occhi spauriti della figlioletta, durante una gita di famiglia. Nelle acque del lago, dove si era gettato nel vano tentativo di salvarla, Juha ha, come in una versione macabra de L’Atalante, una visione estatica di pre-morte, del proprio corpo insieme a quello dell’amata sul punto di stringersi in un estremo, fatale abbraccio. Uno stato allucinatorio di beatitudine che riuscirà a rivivere solo, molti anni più tardi, grazie all’incontro con Mona (Krista Kosonen), dominatrix per vocazione, pronta ad esaudire le voglie di bondage e sottomissione dei suoi clienti. È grazie a questa discesa nel mondo BDSM, un mondo sotterraneo di tenebre luminose, fatto di neon rosa e tute di latex, a cui accede dal seminterrato di uno studio di piercing dove aveva accompagnato la figlia per il quattordicesimo compleanno, che Juha emerge a nuova vita. Entrare in quell’Eden oscuro di piacere è come attraversare la soglia del proprio subconscio, un luogo in cui sentirsi di nuovo in possesso dei propri desideri, spogliarsi della propria ordinaria apatia, risvegliarsi dal coma di una vita meccanica e chirurgicamente scandita tra la monotonia del tempo del lavoro, delle cure domestiche, parentali e dei rituali autoerotici feticistici privi di appagamento. Attraverso il soffocamento che Mona, personaggio lunare in parrucca e frustino, gli pratica, Juha rivede l’immagine di sé e della moglie nelle acque del lago e prova finalmente quell’estasi di piacere che aveva vissuto molti anni prima, un piacere perduto in quell’abisso in cui aveva lasciato anche se stesso. L’ultimo ricordo d’amore è un ricordo di morte che solo nelle mani di Mona si trasforma di nuovo in desiderio di vita.
Dogs Don’t Wear Pants racconta un percorso di trasformazione e redenzione, dalla disperazione al godimento, puntellato di momenti di humor assurdo - un primo appuntamento esilarante - e episodi di violenza sadica - comprese estirpazioni di denti e unghie – tra il ridicolo e l’insostenibile, e riadatta un dramma scurissimo in una commedia romantica sex positive inaspettata, dove il dolore fisico è la soglia da attraversare per ritrovarsi, guarirsi e ricominciare a vivere, mandando all’aria ogni ordine e aspettativa. Infierire sul corpo è l’unico modo per tornare a sentire. Per sentirsi vivi. Procurarsi (o procurare) dolore fisico diventa un rito di passaggio fondamentale per andare oltre il proprio malessere, per lenire il proprio cuore. Ironicamente, sia Juha che Mona, si occupano per professione di aggiustare corpi rotti (cardiochirurgo lui, fisioterapista lei) ma non sanno curare le proprie ferite interiori, troppo profonde. Il film insomma ci porta giù nella parte più insondabile dei desideri, inconsci, pulsionali, dove scoprire candidamente il potere taumaturgico della perversione. E lo fa con incredibile leggerezza, humor sadico e una vena di dolce disperazione. Valkeapää ha le capacità di gestire tutto questo, la materia umana di una tragicommedia multiforme, con una regia fluida e suadente, volta alla ricerca estetica della bella immagine; ha il merito di riuscire a liberare da clichès e convenzioni il racconto in nome di una libertà espressiva originale e personalissima.