Heartstone
Gudmundssson si inserisce a pieno titolo nella produzione di qualità del cinema islandese con una delicata storia d’amicizia e amore adolescenziale.
A partire dagli anni Ottanta, l’industria cinematografica islandese ha intrapreso un vertiginoso percorso di crescita grazie a lungimiranti politiche di sostegno messe in campo dal governo nazionale, frenato – almeno per quanto concerne il supporto finanziario locale – dal terribile impatto della crisi economica internazionale, tradottasi in tagli consistenti nel campo della cultura.
Veri e propri padri fondatori del moderno cinema islandese come Fridrik Thór Fridriksson (conosciuto soprattutto per il candidato all’Oscar Figli della natura, del 1992) e autori più giovani come Baltasar Kormákur (il cui Everest ha aperto Venezia 72), Dagur Kári (Nói albínói, trionfo al Festival di Rotterdam) e Grímur Hákonarsonn (Rams - Storia di due fratelli e otto pecore, primo film islandese a vincere nella Un Certain Regard), hanno mostrato al pubblico festivaliero internazionale le qualità innegabili di una produzione vitale e consistente, specie se paragonata allo sparuto numero di abitanti dell’isola.
Con Heartstone (Hjartasteinn), primo lungometraggio di Gudmundur Arnar Gudmundsson (classe 1982) presentato a Venezia73 nelle Giornate degli autori e candidato al Queer Lion, alcuni topoi propri del cinema nordico emergono con delicata brutalità in un teen movie intimista e atipico, lontanissimo dalle ambientazioni scolastiche caratteristiche del genere e completamente immerso nelle terre selvagge del ghiaccio e del fuoco.
In un piccolo villaggio di pescatori sulla costa est dell’Islanda, Thor e Kristján vivono un’estate iniziatica, lungo la quale le prime grandi conquiste del coming of age avvengono tra le montagne e il mare, sotto i cieli imprevedibili del Nord Europa, nelle iridescenze di una condizione – umana e naturale – immersa nel flusso incessante della vita e sottoposta a continua evoluzione-ridefinizione. Sono “figli della natura”, la cui freschissima ricerca esistenziale è inscindibile dall’ambiente in cui questa si svolge – come nel film di Fridriksson e di altri cineasti islandesi che ne seguono le orme, in primis Rúnar Rúnarsson con il suo Sparrows, nel quale il protagonista sedicenne si mette in viaggio dalla capitale verso i fiordi dove vive suo padre.
Portando la natura dentro i propri personaggi, lo sguardo che il regista rivolge a Thor e Kristján si fa endocrino e riservato, intrinseco e timido, anche negli inevitabili momenti di estroversione di ragazzi appena partiti all’esplorazione delle terrificanti primizie che si stagliano fuori dalle proprie case: i primi baci e i primi amori, le impacciate incursioni nelle ans(i)e del sesso, gli orientamenti altalenanti, i rapporti con i coetanei e il confronto con l’immancabile prepotenza dei bulli, l’amicizia, l’amore, i conflitti famigliari e la ribellione, il corpo che cambia.
Con un’ispirata delicatezza (che non può non richiamare alla mente le dolcissime ed eteree melodie dei conterranei Sigur Ros) Gudmundssonn, che aveva già affrontato queste tematiche nei suoi precedenti corti Àrtùn e Whale Valley, narra la tenerezza ma anche la cruda brutalità di queste esperienze conturbanti, ponendo gli occhi nelle strette intercapedini dove il paesaggio esteriore incontra e plasma quello interiore, raccontando una storia fortemente autobiografica basata sul vissuto personale del regista, cresciuto – a suo dire – in un “luogo pieno di contrasti dove il sole splende più a lungo possibile durante l’estate e il meno possibile in inverno; un luogo dove i bambini imparano a conoscere gli animali e spesso scoprono come la natura e la gente possano essere incredibilmente belle e incredibilmente crudeli allo stesso tempo”.
I ragazzi pescano, cavalcano, raccolgono uova d’uccello (in una delle scene più emozionanti del film), domano caproni pericolosi, bruciano pecore ammalate, spalano letame e nel frattempo osservano le metamorfosi somatiche. Il loro rapporto con la natura è spesso ostile, contrassegnato da un’immaturità che impedisce loro di rispettare la vita in ogni sua forma. La scena iniziale, in cui Thor, Kristján ed altri amici sbattono violentemente la testa dei pesci appena pescati contro la ruvida realtà del mondo circostante, e schiacciano poi senza pietà un pesce scorpaeniforme per la sua lampante diversità, ne è un chiaro esempio.
In altri frangenti, invece, l’elemento umano si fonde perfettamente con quello naturale. Quando i due protagonisti camminano sotto la pioggia o fanno il bagno in un laghetto di montagna, quando Thor mangia la neve appena posata e il vento accarezza i loro capelli, quando i corpi ancora acerbi si offrono nudi alla vastità degli elementi, si avverte la forza di un legame quasi materno, istintivo, innato. La violenza, psicologica o fisica che sia, appare allora in tutta la sua estraneità come l’anomalo prodotto di una devianza costruita dagli uomini, come un deliberato allontanamento da ciò che è genuino. Naturale, appunto. Deviato non è l’orientamento omosessuale di Kristján, così teneramente innamorato del suo amico, ma la violenza di padri omofobi o assenti, l’indifferenza e inerzia di madri passive o egoiste. Thor lo capirà, visceralmente e a suon di lacrime, soltanto dopo che Kristján gli avrà fatto comprendere, con un gesto estremo, il vero valore della vita. Soltanto allora, il pesce che all’inizio viene calpestato a morte, potrà riprendere a nuotare.