Homo sapiens
Un caleidoscopico film-saggio sull’(in)civiltà dell’uomo occidentale costituito interamente da materiali di repertorio
Che sia solida narrazione o fluida sperimentazione visiva, il cinema è tendenzialmente inteso come creazione di immagini ex-novo. Ma a ben guardare questa non può essere considerata la discriminante definitiva, la conditio sine qua non, perché dentro al cinema altro – quello che sceglie di rispondere ad esigenze prettamente poetiche e autoriali, quello più liminale, sconfinante, inclassificabile – esiste ancora un altro cinema: il found footage, che sposta l’azione registica drasticamente e completamente al di fuori dell’immagine, riducendola ad un unico, essenziale e imprescindibile gesto, ovvero il montaggio. L’immagine è allora puro object trouvé, qualcosa che preesiste al film che la (ri)mostra, che la riporta alla luce restituendole spazio e respiro, tramite un processo di appropriazione che comporta, spesso, un cambio di segno dell’immagine stessa, che diviene un significante il cui significato è stabilito - al di fuori di essa - appunto dal montaggio. L’approccio che sta dietro a questo modus operandi si incrocia, per forza di cose, con le teorie del montaggio messe a punto da Sergej ?jzenštejn e con le pratiche predilette delle avanguardie. Pensiamo al cinema surrealista, nel quale proprio l’accostamento di elementi stridenti e apparentemente incongrui opera la messa in crisi, lo strappo definitivo del e sul reale; ma ancora di più al Dadaismo, che interviene su un oggetto preesistente ridefinendone il senso (L.H.O.O.Q., la Gioconda con baffi e pizzetto di Duchamp) esattamente come il regista, nel found footage, seleziona una serie di filmati precedentemente realizzati scomponendoli e ricomponendoli per sviluppare il proprio, personale discorso cinematografico.
Praticato sporadicamente e ancor più raramente promosso e sostenuto, il found footage è però anche e soprattutto cinema della memoria: che sia privata – se il materiale è costituito da home video e super8 familiari – o collettiva – quando vengono invece utilizzati filmati d’archivio e di repertorio. E’ soprattutto in quest’ultimo caso che le immagini vengono impiegate per produrre un senso nuovo, che in definitiva le trascende, come avviene in Homo sapiens, mosaico debordante e ipnotico di materiali filmici dell’Istituto Luce e del Paté Cinema (Parigi), cuciti insieme senza alcuna coerenza spaziale e temporale. Saggio, poesia e indagine filosofica sulla (in)civiltà dell’Occidente, disorientante, frammentario e scabro in superficie, il film è in realtà un calibratissimo excursus di fulminee metafore - il cadavere di un soldato e la carcassa di un cinghiale trasportati allo stesso identico modo - e splendide consonanze formali - il movimento della muleta di un torero che si ripete nell’ampio scialle di una modella, che a sua volta cammina procedendo verso la macchina da presa, come farà, nella scena successiva, un prigioniero tra due gendarmi.
L’homo sapiens che viene fuori da questa sorprendente raccolta di immagini in bianco e nero è pedissequamente educato all’obbedienza e alla violenza, e dentro quest’ultima inscrive il suo rapporto col mondo. La guerra è infatti onnipresente: esplosioni, fucilazioni, carri armati, città devastate. Solo i topi restano vivi tra le macerie.
L’uomo non è un singolo che pensa ma piuttosto una moltitudine che agisce all’unisono, è la folla pronta indifferentemente a uccidere o a baciare la reliquia nelle mani del sacerdote, la folla che beve a piene mani la retorica patriottica e militarista per poi tornare a casa senza una gamba o senza un occhio. In cambio, l’homo sapiens chiede solo panem (ricorrono, quasi parossistiche, diverse scene dedicate al cibo) et circenses (parate, sfilate, processioni, balli). Del resto, la citazione di Rousseau che apre il film è programmatica: “…gli uomini che formano il gregge chiamato società, faranno tutti le stesse cose nelle stesse circostanze, a meno di esserne distolti da motivi più potenti”.
La regista Fiorella Mariani (Roma, 1933), nota soprattutto come scenografa, ha lavorato nei teatri dell’Opera di tutto il mondo e con registi del calibro di Visconti e Zeffirelli. Con Homo sapiens, realizzato negli anni Settanta, offre allo spettatore uno specchio che rimanda un’immagine innegabilmente nitida, tristemente esatta della nostra contemporaneità, e lo fa in maniera ancor più incisiva e disturbante perché questa immagine- object trouvé non appartiene al regime della finzione ma a quello della realtà.