Dossier Pedro Costa / 1- Ossos
L’opera terza di Pedro Costa è documentario e poesia, elegia e tragedia di una comunità e di un quartiere dimenticato di Lisbona.
Opera terza di Pedro Costa, Ossos è il film che segna in maniera indelebile la sua firma autoriale, con un ritorno ad un tema che era già caro all’autore, quello delle umanità migranti e dimenticate. Dopo la colonia portoghese di Capo Verde, al centro del precedente Casa de Lava (1995), Costa volge lo sguardo verso la colonia urbana di Lisbona, luogo dimenticato a cui l’autore dedicherà una trilogia di lungometraggi che include i successivi No Quarto da Vanda (2000) e Juventude en Marcha (2006).
Ossos è una storia minima, se di storia si vuole parlare: lo spettatore accompagna un tratto di vita di una coppia ed un neonato che nessuno dei due è in grado di crescere e sostenere. La madre cerca il suicidio, l’infante sopravvive per grazia. Il padre cerca di prendersene cura e poi di venderlo, forse per disperazione. Le vite di altri personaggi, in particolare la sorella della madre, completano l’affresco di una comunità marginale e volitiva, vitale e disperata.
Il tempo passa, in Ossos, ma il processo misterioso e largamente arbitrario che trasforma il chronos in kairos, il tempo casuale degli avvenimenti nel tempo teleologico del racconto, è abortito ad uno stadio larvale. La pulsione documentaria, l’osservazione etnografica e il desiderio di costruire un contatto con il mondo dei protagonisti prevalgono sulla volontà di raccontare storie e personaggi. Ossosè, prima di tutto, un viaggio tra i vicoli e le baracche del quartiere degradato di Fontainhas, baraccopoli di Lisbona dove i migranti e i reietti trovavano la loro casa. Il film è la storia di un luogo, di una comunità e del loro coesistere, di un esserci nonostante. Nonostante l’invisibilità cinematografica di queste e vite e luoghi nel palinsesto e negli schermi della metropoli, invisibilità che condividono con i fratelli e le baraccopoli di mille altre città globali che costellano la Terra. Fontainhas è un alveare di uomini e donne confusi, teneri, ferini e disperati: nulla della loro messa in scena vuole essere ridotto a misura di narrazione e di funzione drammatica. Vite, vite e nient’altro: Pedro Costa vuole raccontare le vite nel loro stato naturale di movimento senza meta, senza epilogo, senza inizio.
Ossosè l’opera fondamentale per entrare nel cinema, certo non facile, di Pedro Costa. Si tratta del primo film della sua maturità artistica e, soprattutto, è l’opera nella quale sono più chiare e risolte le forze che si agitano all’interno del suo cinema: lo scavo al confine tra finzione e documentario, il racconto di spazi e personaggi marginali e la ricerca di un linguaggio scabro ed essenziale trovano qui la realizzazione più chiara. Per certi versi, è anche il film migliore di Pedro Costa: meno radicale delle sue opere successive, Ossosè rigoroso e persino ascetico, ma mai allegorico, e non chiude mai il dialogo con gli autori e le cinematografie che lo informano e lo rendono possibile. I nomi possibili sono tanti, tutti utili ad illuminare un aspetto del film: Manoel de Oliveira è un punto di riferimento importante per la scelta di Costa di raccontare un luogo e una comunità come se fosse un personaggio storico, così come lo sono gli altri autori del Novo Cinema portoghese. Tuttavia, i riferimenti sono da rintracciare soprattutto a livello internazionale: Rossellini e Bresson per l’umanesimo dolente, Ozu per la sensibilità compositiva e il ritmo del montaggio. I più cinefili penseranno anche, inevitabilmente, a Tsai Ming-Liang.
Che cosa accomuna tutti questi autori? I temi e gli stili sono diversissimi, ma al centro di questo modo di intendere il cinema c’è una rigorosa etica dello sguardo. Detto altrimenti: la ricerca di un punto di vista onesto, ragionato, coerente con quello che si vuole raccontare. Per Costa, la questione dello sguardo è fondamentale, a partire dal posizionamento della macchina da presa. Il regista sa di non essere parte della comunità che vuole rappresentare, ma non vuole tradirla o imporre un punto di vista: per questo motivo, si impone di non rinchiudere le sue immagini in cornici che direbbero troppo, o male. Preferisce la distanza, il punto di vista dall’esterno della casa o dalla soglia della stanza. Quando inquadra i personaggi, mantiene una rispettosa distanza e tende ad evitare (con qualche rara eccezione) i primissimi piani o scelte forti di montaggio. Per gli stessi motivi, la storia mantiene un grado minimo di finzione e molti personaggi sono interpretati da attori non professionisti.
Il risultato di questa disciplina e coerenza è un film scuro e laconico, inizialmente respingente e certo non per tutti. Per chi è disposto a penetrarne il segreto e a seguirne i pensieri per immagini, invece, Ossosè un film di fortissima emozione e autenticità. Elegia e tragedia, documentario e poesia trovano un punto di equilibrio tra i vicoli e e le baracche di un labirinto urbano che resterà a lungo negli occhi e nel cuore.