Horace and Pete

Dall'autore di ''Louie'', una serie irripetibile dove si incontrano il teatro, la TV e il web.

Il 30 gennaio di quest’anno agli iscritti alla newsletter di Louis C.K. è arrivata una mail contenente pochissime righe e un link. Il testo segnalava la disponibilità del primo episodio di un nuovo show, Horace and Pete, invitando a cliccare sul link per poterlo acquistare, e salutava i lettori augurandogli di apprezzare l’episodio. Firmato, Louis.

Da quel giorno in poi Louis C.K. ha inviato tramite la sua newsletter una mail a settimana contenente il link per acquistare il nuovo episodio di questa misteriosa serie, sempre accompagnato da alcune righe di presentazione in cui parlava liberamente di qualsiasi cosa (tra cui la più nota è una lunga missiva in cui invitava i suoi seguaci a non votare Donald Trump, paragonandolo a Hitler). Il primo episodio di Horace and Pete era scaricabile al prezzo di cinque dollari – dopo alcune lamentele per l’eccessivo costo, il secondo fu reso disponibile al prezzo speciale di due dollari e i restanti a tre – ma prezzo a parte inizialmente era molto difficile soprattutto capire di cosa si trattasse: era un prodotto strano, sfuggente alle tassonomie tradizionali e di cui nessuno poteva sapere di più perché era impossibile fare ricerche o raccogliere informazioni.

A certificarla c’era il talento dell’autore e la sua capacità di creare consenso nel settore, ma anche la lista di coloro che hanno contribuito (gratis o quasi) alla realizzazione della serie: Steve Buscemi, Alan Alda, Jessica Lange ed Edie Falco sono solo alcuni degli attori che mettono il loro talento al servizio di un progetto che sembrano sposare pienamente, a giudicare dall’intensità del loro contributo. Stesso discorso per Paul Simon che ha scritto e cantato la sigla e al quale viene riservato anche un piccolo cameo.

Il risultato è un esperimento, un azzardo coraggioso, una serie interamente autofinanziata da Louis C.K. con un’impresa produttiva quasi senza precedenti, specie se si considera che non si tratta di una classica web-series a basso budget, bensì di un’opera altamente sperimentale e libera da ogni logica costrittiva sia per quanto riguarda la fase creativa che quella distributiva.

La serie racconta la storia del locale a conduzione familiare che prende il nome dai due protagonisti, Horace e Pete (rispettivamente interpretati da Louis C.K. e Steve Buscemi), attivo da generazioni nella Grande Mela e sopravvissuto per quasi un secolo grazie al rispetto di tradizioni solidissime, prima tra tutte quella di dar vita a eredi di nome Horace e Pete ai quali affidare le chiavi e il futuro del bar.

A partire da questo setting, Louis C.K. dispiega la storia di una famiglia americana come tante, che attraverso una temporalità espansa incrocia più generazioni, più fasi dell’evoluzione della società americana e dei suoi costumi. Lo spazio messo in scena è diviso tra la dimensione pubblica e quella privata, esemplificate dal bar e il suo retro, un vero e proprio appartamento dove alcuni dei protagonisti vivono stabilmente. Entrambe le dimensioni si intersecano profondamente dando vita a frequenti tracimazioni dei problemi familiari in quelli lavorativi e viceversa.

In realtà poco altro si può dire sulla serie dal punto di vista narrativo e non tanto per tutelare i lettori dagli eventuali spoiler, quanto piuttosto per sottolineare l’imprevedibilità di un prodotto che fa della libertà creativa il proprio maggiore punto di forza, grazie soprattutto a un’idea di partenza estremamente flessibile sulla quale poter lavorare in qualsiasi direzione, come dimostrato dai dieci episodi che compongo questa prima e quasi certamente unica stagione.

Dal punto di vista narrativo la serie è una mosca bianca, un oggetto unico nel panorama televisivo contemporaneo soprattutto grazie alla sua capacità di unire la caratterizzazione approfondita dei personaggi principali con le infinite possibilità offerte dal concept di partenza, in particolare quella di creare episodi con archi narrativi autoconclusivi con cui sperimentare sul formato breve senza alcun vincolo di genere, di stile o di minutaggio. Basta un bancone, dei personaggi e una storia da raccontare. La situazione consente di connettersi a doppio filo con l’attualità, tanto che una delle più significative sequenze dell’episodio pilota è legata a un dialogo tra due clienti sul reale significato dell’essere democratici e repubblicani, confronto arbitrato da un terzo personaggio che ha il compito di mettere in evidenza quanto siano i pregiudizi reciproci prima ancora che le idee ad avvelenare la competizione politica.

Altra dimostrazione incontrovertibile della qualità e dell’assoluta libertà stilistica della serie è l’inizio della terza puntata: per circa venti minuti si assiste a un piano sequenza in primo piano su un personaggio mai visto che racconta guardando in macchina (in quella che poi scopriremo essere al soggettiva del protagonista) una storia a prima vista sconosciuta allo spettatore ma che lo tiene incollato allo schermo grazie all’ipnotica interpretazione di Laurie Metcalf, che si esibisce in una performance a metà tra cinema, televisione e teatro di grandissima intensità. La bravura di Louis C.K. qui sta anche nel collegare con precisione al plot orizzontale una storia che sarebbe stata efficace anche in modo indipendente, ma che in questo caso assume un’ulteriore livello di lettura.

Horace and Pete è una serie in cui può succedere di tutto, dove un personaggio introdotto in maniera quasi casuale può rivelarsi fondamentale alla storyline principale o in cui da una situazione comica apparentemente inoffensiva si può passare a una violenta critica alle abitudini e ai costumi tipici della contemporaneità.

Evasa dagli stand-up di Louis C.K., la poetica istrionica e politicamente scorretta dell’autore passa in maniera osmotica dal teatro alla TV (se ancora possiamo definire TV un prodotto del genere), risemantizzandosi da cima a fondo senza per perdere nulla in efficacia e potenza narrativa.

Bilanciando perfettamente tonalità drammatiche ed altre da commedia, la serie si distingue per la spiccata originalità e il coraggio di portare avanti personaggi uno più solo e sofferente dell’altro, tutti alle prese con problemi reali. Horace and Pete possiede quel tocco leggermente jarmuschiano nel modo di rappresentare le situazioni quotidiane, scampoli di vita nei quali sia attraverso la comicità che attraverso la tragedia si riesce a dispiegare riflessioni dal carattere universale che riguardano temi di ogni grandezza, dalla famiglia tradizionale alla società americana e i suoi pregiudizi in materia di diritti civili o differenze di genere.

Ciò che rende tutta l’operazione unica e dà senso al lavoro di Louis C.K. è la modalità distributiva scelta e le sue conseguenza sulla testualità dello show, sia sul piano creativo che su quello della promozione e della fruizione. Un modello del genere permette all’autore di creare la propria serie senza vincoli di formato o di genere, scegliendo il minutaggio a seconda della necessità: la durata degli episodi infatti varia in maniera sensibile, andando dai venti minuti ad alcuni che superano l’ora di durata. La promozione non è meno rivoluzionaria, specie perché lo spettatore è messo in una condizione di totale verginità (vista l’assenza di qualsiasi campagna di marketing e pubblicità) rimanendo così in balia della serie, costretto a tenere alta l’attenzione e la curiosità durante la visione.

Lo show si articola, molto coerentemente, attraverso una sequenza di sorprese non tanto rispetto al plot, quanto allo stile scelto e alla questioni affrontate da ogni singolo episodio: una lista di soluzioni spiazzanti a cui non fa eccezione la conclusione, arrivata improvvisamente e comunicata nella mailing list dall’autore stesso, mettendo gli spettatori di fronte all’inatteso epilogo dello show.

Se proprio dobbiamo immaginare il futuro della televisione, quantomeno relativamente alla narrazione seriale, non possiamo che andare a cercarlo in Horace and Pete, che in dieci episodi ha dimostrato la vitalità e la voglia di sperimentazione di uno dei maggiori autori americani contemporanei.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 08/11/2016

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