Gli invisibili
Il nuovo film del bravo Oren Moverman non sempre convince nel suo radicalismo stilistico, ma ha tanti bei momenti di grande cinema.

Del regista israeliano Oren Moverman abbiamo già imparato ad apprezzare le forti scelte di campo e i suoi due film precedenti, Oltre le regole – The Messenger e Rampart, erano in tal senso degli ottimi esempi di un cinema muscolare ma civile, nel primo caso, e crudamente introspettivo nel secondo.
Nel suo nuovo Gli invisibili Moverman ha invece asciugato la propria impronta registica all’inverosimile, spiazzando francamente non poco ma anche raccogliendo i non pochi sforzi del suo impegno, che per alcune cose ha del titanico, oltre che dell’ammirevole. Il film infatti, tutto addosso a un Richard Gere sensazionale che ha trascorso davvero un’enormità di tempo da homeless, è una scarnificata immersione nel mondo dei senzatetto newyorkesi attraverso il transfert diretto in uno di essi, proprio il George interpretato da Gere. Un personaggio di cui nulla sappiamo e del quale niente ci è dato sapere, perché a contare non è il suo passato o ciò che l’ha condotto dove si trova adesso ma l’assurdità del quotidiano disastro della sua condizione. Un essere umano che la gente evita per paura di rimanere appestata, un uomo che ha perso tutto e con quell’assenza si ritrova a convivere attimo dopo attimo, ogni giorno per tutti i giorni.
Il film di Moverman non ha però alcuna retorica, nemmeno contro il sistema, neanche in forme beceramente e semplicisticamente antipatriottiche o antinazionali (e ne avrebbe ben donde). Si tratta di un film che, per stessa ammissione del suo attore protagonista, rifugge la semplicità in nome della complessità e della compresenza di più livelli di lettura. Non è un film che vuole dimostrare alcunché, ma un’opera che intende semplicemente (si fa per dire) riprodurre il ritmo interno di quella vita, anche a costo di risultare piatta e senza guizzi, di non assolvere alle logiche dell’intrattenimento ma piuttosto negandole e capovolgendole fino a farne carta straccia. E’ un prezzo da pagare, chiaramente, e non è certo un tributo di poco conto. Perché Gli invisibili, soprattutto nella prima parte, non ne vuol sapere di decollare e ondeggia tra secche continue e momenti inspiegabilmente asciugati, tra personaggi di contorno che appaiono e scompaiono e paludi involute, tra sequenze superflue e fughe dal centro dell’inquadratura che evitano perfino il contatto tra la macchina da presa e il protagonista.
Può essere un film irritante nella genesi e nell’ispirazione, quello di Moverman, ma è un’operazione cui va comunque tributato il giusto peso. E non solo per via della performance abnegata e viscerale di Gere, abilissimo in sottrazione e disperazione e nel mettersi a nudo - anche letteralmente - nonostante l’età non sia più quella di un giovanotto, ma anche per come il regista gestisce un tono così complicato, facendo ricorso a campi lunghi in cui spesso non si sa bene cosa e dove guardare, a un minimalismo totale privo di steadycam e a un commento sonoro quasi mai invadente, a un uso sfatto e smarrito del digitale e a un camera fissa che ritorna e ritorna. Perfino il sonoro diegetico è non lineare, cacofonico, dissonante.
In questo oggettività impersonale c’è però tutto il chiarore espressivo del grande regista, quello che stringe l’inquadratura molto lentamente con una quasi impercettibile zoomata progressiva, che trasforma lo sguardo impietrito del protagonista nel proprio, tra poesia trattenuta e intenerimento inespresso. Tanto che nel finale, dopo tanti giochi di specchi, di nuche e di non detti, quando irrompono due primi piani ecco che la commozione arriva puntuale, strisciante e autentica, a tal punto che basta il solo gesto di George che appiattisce delicatamente le banconote per pagare una birra al bancone dove lavora la figlia per smuovere le lacrime, complice anche l’elettricità che sorge tra i due e l’indefinitezza del loro rapporto. Perfetto suggello su un film che non comincia e non finisce, che non spiega ma abbozza e procede per impressioni, mimando il respiro della vita in presa diretta, con tutte le spiacevoli conseguenze che ciò comporta. Un atto di fede e di coraggio a dir poco ammirevoli, ancora oggi, pur con tutti i limiti e le indigeribili asprezze possibili.