Una casa in cui ogni tabù societario è riunito in una fiera delle atrocità dove prostitute da burlesque, sadici e masochisti e deformi voyeur vengono esibiti come opere d’arte o performance artistiche sublimandone la loro diversità e facendone voluttuosamente mostra. Il luogo adatto dove concretizzare un nuovo punto di vista, scevro da categorizzazioni e dimensionamenti falsi e bugiardi, luogo del non detto parallelo al nostro mondo bello e pulito, luogo dell’Altro e della perdizione in grado di accettare tutto ciò che noi stessi rifiutiamo. La bellezza armonica, racchiusa nelle dolci forme femminili delle tante (e stupende) donne presenti in questa pellicola, viene anche essa rapita dall’apoteosi del brutto e, attraverso questo naturale accostamento per antitesi, dimostra la sua perfetta ed agghiacciante diversità racchiusa nella sua naturale perfezione.
Questo è il luogo scelto da Sebastian per liberare la sua fantasia peccaminosa, autentico voyeur dell’indicibile e dell’impresentabile del mostrato filmico, legato in schiavitù a questa sua ossessione di registrazione dell’Altro dove può consumare nella masturbazione le sue più recondite fantasie voluttuose. E allora, che suonino le trombe e sbattano i tamburi, lo spettacolo dell’adombrato inconscio sta per cominciare. Un letto come comodo riposo, un cuscino sul quale appoggiare la testa rigonfia di miserevoli desideri, un sonno regolatore della stanchezza psichica che accompagna Sebastian nel suo biasimabile mondo, attraverso traumi infantili che si tramutano in personaggi freak e volontari citazionismi che espongono la volgarità dell’arte che li ha creati.
Opera prima – a cui seguirà The Museum of Wonders – di un regista di cui sentiremo assolutamente parlare forse non esclusivamente bene, come adesso và tanto di moda, ma che stimolerà il pensiero non canonico facendo certamente discutere. Domiziano Cristopharo si presenta cosi: se il concordato amore non basta, lui si appella al sacrosanto principio di alterità che dovrebbe costituire il terreno sul quale edificare qualsiasi costruzione artistica. Fanatico giannizzero dell’impossibilità della castità nell’arte (come sosteneva lo stesso Picasso), Cristopharo unisce generi eterodossi ma accomunati dalle loro capacità di descrizione di mondi borderline come l’horror, il grottesco, il burlesque, la Body-Art, la pornografia e l’utopica ricerca dello Snuff Movie. Attraverso questa commistione di possibilità enunciative, scende e scandaglia all’interno del suo personaggio/traghettatore Sebastian (Domiziano Arcangeli, nonché produttore dello stesso film) un mondo altro, introduce personaggi angelici come Sarah/Beatrice e padri mefistofelici (Giovanni Lombardo Radice) ma, a volte, dimentica le motivazioni che definiscono in un film le dinamiche di progressione drammaturgica. Un mondo ricreato (forse anche quando non dovrebbe) totalmente all’interno di teatri di posa, un’eccessiva volontà scenografica (comunque di grandissimo impatto visivo) e un’aperta intenzione di emulazione teatrale, costringono la regia a sottostare a convenzioni poco cinematografiche nella scelta dei piani di ripresa, optando per una staticità ed un’orizzontalità del punto di vista a discapito dei movimento di macchina.
Particolari giochi di montaggio e audaci scelte di disturbo visivo rendono questa opera un’interessante punto di partenza per un completo raggiungimento di una capacità espressiva congrua al mondo “narrato” ma, per ora, troppo schiava del desiderio di rivolgersi direttamente allo spettatore attraverso inutili sguardi in macchina e dialoghi troppo lirici e poetici da essere da supporto possibile ai personaggi e all’immedesimazione dello spettatore, diventando più che battute recitate appelli diretti a sguardi spettatoriali poco abituati a tale forza visiva e contenutistica. Interessante il costante gioco di rimandi alla possibilità espressiva dell’immagine, sforzandosi di creare un’immagine “super nova” che nasce dalla realtà disincantata che ci circonda e aumenta di luminosità ingigantendo lo sguardo verso un mondo Altro, fino all’esplosione finale e alla conseguente creazione del “buco nero dell’espressione” nel quale si riversano immagini che nessun altro vuole fotografare o riprendere perché troppo pericolose per la nostra benpensante moralità. Un iris che si dilata accompagnando tutte le immagini che investe della propria luminosità; un diaframma troppo grande capace di veicolare luci ed ombre e lasciare che si registrino in un nastro per poterle riosservare lontano dal pudore che ce le fa dimenticare ma, che a loro volta, costituiscono la base riflessiva di ogni nostra, seppur minuscola e personalissima, misera patologia. L’occhio umano ha potuto osservare, ora lasciamo che il cinema, ma soprattutto l’Arte, possa comportarsi di conseguenza. E, in Domiziano Cristopharo, l’artista ancor più che il regista, capace di rimediare a questo pudico squilibrio.