Ispirato all’omonima graphic novel di Kevin Grevioux, (da non confondere con il Frankenstein riveduto e corretto da Bob Kane per la DC Comics) I, Frankenstein è un action fantasy curioso e sgangherato, un’opera che sembra sfuggita per miracolo al mercato straight to video, ma che trova il suo maggior punto di forza proprio nell’estrema fragilità dell’intera operazione.
Il film di Stuart Beattie altro non è che una delle innumerevoli incarnazioni mediali che uno dei mostri più celebri della cultura popolare sta sperimentando su di sé, ormai da decenni, senza sosta. Cinema, musica, videogiochi, fumetti e persino teatro (proprio di recente è stato messo in scena uno spettacolo teatrale con Benedict Cumberbatch) hanno saccheggiato il corpo, lo spirito e le peculiarità del mostro per ogni possibile rivisitazione. Frankenstein è a tutti gli effetti un’icona cross-mediale, presente in versione esplicita o sotto neanche troppo mentite spoglie (Lurch della Famiglia Addams o il Bane nel Batman & Robin di Schumacher) in una sterminata quantità di film. La creatura, per brevità chiamata con il cognome del suo fittizio creatore, si presta sin dalla sua genesi all’assemblaggio di materiali eterogenei essendo, come è noto, il risultato di un cut-up di cadaveri appartenuti a diversi esseri viventi. Il percorso cross-mediale di Frankenstein incarna la metafora del nuovo che prende forma da pezzi di altro ormai “vecchio” e morto.
Tuttavia, come insegna Mary Shelley nel romanzo che ha dato via al tutto, Frankenstein, o il moderno Prometeo, non sempre la creatura a cui si infonde la vita sceglie di seguire il percorso che ci si era prefissati ma, anzi, nella maggior parte dei casi tende a ribellarsi al suo creatore, prendendo strade del tutto inaspettate e non sempre luminose. Il Frankenstein cinematografico di cui parliamo in questo caso forse sarebbe più interessante osservarlo filtrato attraverso la lente di un gioco linguistico, più che costretto dietro a qualche forzata speculazione teorica. Il titolo del film è infatti il punto di partenza per il gioco: ”I, Frankenstein”. Con quella prima persona singolare si evidenzia come in questo film Frankenstein abbia finalmente trovato un’identità, un’individualità svincolata dalla pesante eredità sia paterna che letteraria. Eppure, osservando il film, ciò che sembra suggerire realmente quella “I” è una parentela con la fortunata “I” che ormai accompagna e precede gran parte del merchandise tecnologico targato Apple. Se togliessimo la virgola che separa le due parole nel titolo I, Frankenstein otterremmo una sorta di grottesca parodia tecno-organica dei tanti device che ormai fanno parte delle nostre esistenze. IPod, Iphone e, perché no, anche IFrankenstein: un mostro che come gli oggetti appena citati vive di costante aggiornamento, di un’evoluzione votata alla totale integrazione con il genere umano. Cinema cross-mediale come forma di upgrade.
Ma tornando all’aspetto più pragmatico dell’operazione, l’intento di aggiornare il mito di Frankenstein con modalità di messa in scena più appetibili per le nuove generazioni di spettatori (in special modo per quell’appetibile fetta di pubblico femminile, in buona parte teenager, che ha costituito la fortuna di Twilight e figli) si infrange in realtà contro un risultato paradossalmente opposto (e qui torniamo al mostro che si ribella) rischiando di non piacere né ai neofiti ne ai cultori. Questo perché I, Frankenstein cede quasi subito (e fortunatamente) a stilemi e modi molto più vicini all’horror di serie z e all’action movie lasciando al romance uno spazio davvero risicato. Ciò giova senza dubbio all’intera operazione ma la relega in un limbo dove sarà apprezzata solo da una ristretta nicchia di amanti dei “guilty pleasures”. I, Frankenstein è quindi uno di quei film gustosamente non riusciti – come l’analoga trasposizione filmica del fumetto Priest di tre anni fa – in cui i generi e le influenze fanno costantemente a cazzotti le une con le altre, dando origine ad un non-equilibrio che non preclude comunque un sottile, perverso, divertimento. Effetti speciali, recitazione, scrittura e coreografie dell’action sono davvero al limite del ridicolo ma nella loro fragilissima ingenuità ed inoffensività generano uno straniante effetto nostalgia (o tenerezza) che fa quasi apprezzare il tutto, ritrovando lo stesso gusto per il disimpegno totale che ha inizialmente reso irresistibile una produzione televisiva di culto anni ’90 come Buffy – L’ammazzavampiri, poi divenuta negli anni (e a differenza del film in questione) molto più profonda e “densa” di contenuti.
In conclusione I, Frankenstein è il tipico film di cui sentite parlare talmente tanto ed esageratamente male prima di vederlo che, una volta visto, se si fa appello a tutta la propria voglia di leggerezza, finisce per strappare più di un sorriso beffardo. Non tutto il cinema deve avere grandi ambizioni.