I nostri ragazzi
Ivano de Matteo prosegue sulla strada de Gli equilibristi la sua disamina delle relazioni familiari. Qui si prende dei rischi enormi, ma il risultato colpisce
Massimo (Alessandro Gassmann) e Paolo (Luigi Lo Cascio) sono due fratelli romani molto diversi. Il primo è un avvocato di successo, il secondo un chirurgo pediatra. Massimo affronta il suo lavoro con distacco e un pizzico di cinismo, Paolo invece vi getta dentro tutto sé stesso, impegnandosi a seguire al meglio i suoi piccoli pazienti. Anche il loro carattere è diverso, pacato e freddo il primo, ilare e irruento il secondo, ma ad unirli ci sono due cose. La prima è la routine di una cena mensile di famiglia, appuntamento denso di argomenti vuoti e tensioni sotterranee; la seconda è la poca attenzione dedicata ai propri figli, tra gli impegni di Massimo e l’attenzione e la dolcezza che Paolo sembra riservare soltanto ai bambini degli altri. A scardinare questo quadro borghese l’esplosione di violenza esercitata dai figli delle due coppie, i cugini Benedetta e Michele, macchiatisi di un crimine tanto improvviso quanto insensato.
Dopo la presentazione in Orizzonti del precedente Gli equilibristi, Ivano de Matteo torna al Festival di Venezia, ospite questa volta della sezione autonoma Giornate degli autori – Venice Days, con I nostri ragazzi, un film difficile e ambizioso, non del tutto riuscito. Liberamente ispirato al romanzo di Herman Koch La cena, I nostri ragazzi traccia un ritratto spietato della borghesia romana, inquadrata in pose ipocrite, relazioni disfunzionali, egoismi abissali. Le due famiglie vengono osservate come realtà speculari, in cui alla rigidità di Massimo si oppone il calore e lo spirito di Paolo, salvo poi l’evolvere improvviso della situazione, che per certi versi porta ad un ribaltamento di ruoli. Paolo, abituato a ritagliare con l’accetta i discutibili clienti di Massimo e quindi il fratello stesso, sarà tra i due quello incapace di accettare la realtà, respingendo con forza ogni opzione legale. Massimo invece, spinto da un senso di giustizia, cercherà di far rientrare il tutto nelle maglie della legalità, senza ricorrere a escamotage o manovre poco trasparenti.
In questo schematismo sta forse uno dei limiti del film, troppo attento al gioco del rovesciamento e per questo rigido, eccessivamente scritto. Tuttavia dietro di esso si sente la volontà di Ivano de Matteo di realizzare un film difficile e problematico capace di porsi al di fuori tanto dell’imperante superficialità del commedia italiana quanto di quella paludosa autorialità tutta nostrana. Per certi versi l’operazione ricorda Il capitale umano di Paolo Virzì, anche se al regista de Gli equilibristi manca ancora uno sguardo forte e a capace di imporsi con la macchina da presa. Tuttavia nel film non mancano di certo le idee forti, come quella di tenere i due ragazzi praticamente fuori dal quadro. Di Benedetta e Michele infatti intuiamo soltanto una relazione disfunzionale e un abissale vuoto morale, ma al centro dell’obiettivo restano sempre i due padri, e in particolare Paolo, il cui ribaltamento è di fatto il cuore del film. Del resto la storia personale tra i due fratelli, evidentemente non risolta, attraversa sotterranea tutto il racconto, andando infine a soffiare sul fuoco della vicenda nell’inaspettato finale, ennesimo gesto di coraggio di un film che nelle sue imperfezioni porta comunque avanti un cinema necessario e importante per il nostro panorama.