Alcuni cineasti hanno la capacità unica di mettere in crisi lo statuto dell’arte nella quale si esercitano. Creano oggetti misteriosi, per i quali parlare di “film” o “narrazione” significa già imbrigliare e limitare. Mettono da parte qualsiasi categoria di facile leggibilità e si immergono nel profondo oceano delle immagini. Rari nantes in gurgite vasto.
Tsai Ming-liang è chiaramente uno di questi. Artista, prima che cineasta, Tsai ha percorso una traiettoria nel mondo del cinema che è al tempo stesso tremendamente coerente e spiazzante ad ogni suo nuovo sviluppo. Non si può parlare tanto di una evoluzione o di una serie di tematiche comuni, quanto di una circolarità espressiva dalla quale si può estrarre una qualsiasi sezione. Il film è, più che opera conclusa e indipendente, un punto di vista, un momento di concrezione di un’opera più grande e complessa che sta al di fuori del film e coincide con la sensibilità dell’autore stesso. Per cogliere la cifra di questa concezione affatto particolare del cinema, tanto vale partire dalla metà, da un’opera che per certi versi concentra molti dei temi e delle ossessioni del cineasta malese-taiwanese: Che ora è laggiù? (Ni na bian ji dian), candidato alla Palma d’oro nel 2001. Di trama, forse, non ha senso parlare; ciò che il film ci mostra è una serie di connessioni tra personaggi e vite. Un giovane uomo di nome Hsiao-kang (l’attore-feticcio Lee Kang-sheng) vende orologi su un passaggio pedonale e, un giorno, incontra una donna che vuole comprare l’unico orologio che questi non può vendere, quello che porta al polso. Alla fine il ragazzo cede, ma l’orologio è in qualche modo connesso con un lutto familiare: il padre del ragazzo è morto di recente. A parte, assistiamo al dolore della madre di Hsiao-kang, che non accetta la morte del coniuge e si lascia consumare dalla solitudine e dal vuoto. E poi c’è il padre, o il suo fantasma, presenza enigmatica che abita il film e ne segna il corto circuito narrativo.
Se c’è progressione drammatica, questa non si ottiene tramite uno sviluppo drammaturgico ma attraverso accostamenti tra tableaux vivants, tipici nel cinema pittorico di Tsai [1]. Cinema che procede per accumulo e sospensione, tanto che non sarebbe azzardato parlare dei suoi film come di sovrascritture dello spazio, ossessioni per i luoghi e le loro relazioni con gli uomini. Un cinema che abita un luogo, più che attraversare il tempo. L’accumulazione di immagini e frammenti è tanto radicale da includere l’intera opera del cineasta, i cui personaggi spesso ritornano dal film precedente al successivo, senza mantenere una coerenza narrativa quanto tematica. Hsiao-kang è il più evidente di questi: eterno straniero, la sua radicale alterità interroga dinamiche sociali ed ipocrisie urbane, mettendo a nudo la fragilità e la mancanza di senso dell’esistenza. Quasi sempre protagonista di scene in solitario, il personaggio interpretato da Lee Kang-sheng osserva, annusa, si muove febbrile tra corridoi, stanze e spazi antropologicamente innaturali, quasi a saggiarne le possibilità di fuga. Ma questo film non è Il buco, e nessun foro nel pavimento può spezzarne l’isolamento. Hsiao-kang è, come ogni altro personaggio, segnato da una radicale incapacità di comunicazione e semmai incatenato da rapporti sociali profondamente distorti. L’impossibilità di liberarsi ed esprimere il proprio isolamento affettivo lo porta a una inquietante ossessione per gli orologi e per il tempo di Parigi, meta della ragazza appena incontrata e fuga immaginaria dal dolore di un lutto che ha distrutto l’unione familiare. Un’altra connessione densa di mistero, e comunque illusoria: gli orologi non saranno mai pienamente sincronizzati e il tempo di Taipei non sarà mai il tempo di Parigi, del suo cinema e dei suoi sogni.
Nella Parigi dei Quattrocento colpi, più volte omaggiata da Tsai, si consuma la storia speculare della ragazza, Shiang-chyi. Le coordinate diverse portano con sé differenti modalità di contatto, ma comunque fallimentari, perennemente abortite. Al negozio, sull’autobus, al cimitero, la giovane donna sperimenta solo distanze e rotture incolmabili. Troverà infine una notte di gentilezza nella compagnia di un’altra donna, spirito affine e quasi speculare. Un gioco di specchi apre ogni personaggio verso l’altro. Non una doppia vita, come quella della Weronika/Véronique di kieslowskiana memoria, quanto un’esistenza composta da occasioni mancate e incontrollabili fragilità. Il film è costellato di false partenze, conversazioni interrotte nei modi più impensabili, tensioni sessuali irrisolte e illusioni che, all’occhio dello spettatore, possono sembrare puerili o surreali. Penetrando nell’intimità di uomini soli con la sincerità e la spregiudicatezza più disarmanti, Tsai riesce a mostrare piccole verità a metà tra il reale e l’immaginario (che è forse più vero del reale). Grazie al cinema o, forse, nonostante il cinema e la sua ideologia, le sue regole e i suoi limiti: Tsai è un regista che chiede ai suoi attori non di recitare, quanto di essere protagonisti di elaborate performance che lo pongono in diretto contatto con l’arte contemporanea.
I temi del regista, si è visto, sono ampi e grevi. Lo sguardo di Tsai è sempre a un passo dalla disperante – persino stucchevole – tragedia. Eppure il passo non è mai compiuto, l’equilibrio resiste. A rendere unico l’approccio dell’autore è un precario equilibrio tra ironia e pietas. I momenti di assurdo del suo cinema – alcuni davvero memorabili: la fuga da sotto il letto in Vive l’amour, lo starnuto che sublima in musical nel precedente Il buco, l’incontro con l’uomo dell’orologio in Che ora – hanno il sapore di un paradosso senza soluzione, un koan. E gli oggetti sono altrettanto enigmatici. Tuttavia, Tsai non abbandona mai una sua forma, tutta particolare, di realismo, fatta di cultura materiale e paesaggi urbani in trasformazione. Questa è un’ulteriore, necessaria chiave di lettura per entrare nell’universo dell’autore: cinema come mosaico di visioni, del passato e del futuro, che raccontano la storia dell’uomo e di Taiwan senza soluzione di continuità. In questo senso, e nella scelta di mantenere le immagini permeabili all’immaginario e alla suggestione della Storia, Tsai si incontra all’intersezione con il cinema di due grandi autori asiatici, Jia Zhangke e Apitchapong Weerasethakul. La storia come geroglifico, l’uomo come paradosso: realismo ermetico.
Mai come in Che ora è laggiù?, Tsai ambisce a un respiro lirico ed umanistico di grande ampiezza. La ricchezza del film può risultare ancora più disorientante per lo spettatore occidentale che conosce poco l’immaginario religioso buddista, a cui questo film si avvicina con particolare evidenza. L’idea madre è quella della circolarità, del ritorno e dell’interscambiabilità fra realtà e illusione, tra vite e personaggi apparentemente così distanti. All’inizio del film, assistiamo ad una stupefacente morte per sottrazione: il padre di Hsiao-Kang (Miao Tien) si riduce alle proprie ceneri in braccio al figlio. Ma, nel finale, qualcosa cambia (o forse nulla è cambiato?): vediamo Shiang-chyi, si è addormentata su una panchina. Davanti a lei, una valigia galleggia su una superficie grigia d’acqua. Un uomo avanti con gli anni pesca la valigia: è il padre di Hsiao-kang. Lentamente se ne va, sembra accendere una sigaretta e poi si dirige verso una ruota panoramica, sullo sfondo. Circolarità di un cinema che rifiuta il lineare, il definito e il necessario per abitare i dettagli, le faglie di passato tra le pieghe del presente.
[1] Per un’analisi puntuale della dimensione pittorica del cinema di Tsai Ming-liang e molte altre acute riflessioni sulla prima parte della sua opera, rimando al testo di Jared Rapfogel su Senses of Cinema: http://sensesofcinema.com/2002/20/tsai_painter/