Il cinema di Tsai / Nel silenzio famigliare

Il cinema di Tsai Ming-liang è oggetto etereo, sfuggente, perennemente sospeso nel tempo e nello spazio. Nato in Malesia, dove trascorre i primi vent’anni della sua vita, Tsai si trasferisce a Taipei per compiere i suoi studi artistici. Il senso di sradicamento dello straniero in una terra “altra” è tangibile in questa filmografia complessa e sfaccettata, sottesa da un eterno sentore di isolamento e incomunicabilità (Antonioni non è riferimento casuale), un malessere che si mischia a momenti grotteschi, talvolta quasi comici, che non stridono bensì accompagnano, in maniera del tutto peculiare, una tristezza malinconica, sottile, taciuta. Il silenzio è una delle chiavi delle sue storie, nelle quali i dialoghi sono rari e le domande spesso non trovano risposta; l’assenza di parole non soltanto come specchio di quella solitudine che è tematica centrale, ma anche (e forse soprattutto) in quanto consapevolezza dell’inutilità della forma verbale, in un cinema che comunica puramente per immagini, fatte di volti, corpi, gesti. Pellicole che vedono una presenza costante, quella dell’attore-feticcio Lee Kang-sheng e del suo personaggio, Hsiao-kang, controparte introversa di quell’Antoine Doinel del tanto amato Truffaut, apertamente omaggiato in Che ora è laggiù? anche con la presenza dello stesso Léaud. Kang-sheng è dunque volto/corpo che è filo rosso di narrati in apparenza inafferrabili, non tradizionali dunque anti-classici nel loro essere per molti versi astratti, articolati in inquadrature pittoriche che nel simbolo/immagine racchiudono il loro significato e nelle quali la parola è realmente un inutile fronzolo, un surplus del quale non si sente la necessità.

Vive L’amour (1994), quarto film del cineasta contando l’esordio col tv-movie All The Corners Of The World (1991), è opera di lancinante bellezza, meritatissimo Leone D’Oro al Festival di Venezia. Kang-sheng Lee torna, per la seconda volta, nei panni di Hsiao-kang, dopo Rebels of Neon God (1992): venditore di urne funerarie, senza fissa dimora, vive clandestinamente in un appartamento che è l’unità-luogo cardine del film, segno materializzato dell’interiorità delle figure che vi transitano, tre personaggi che interagiscono in quanto passeggeri nelle rispettive esistenze. May Lin (Kuei-mei Yang, che tornerà in alcuni dei film successivi) è un’agente immobiliare, donna bella e non più giovanissima, che nel monolocale sfitto e spoglio consuma una fugace avventura di una notte con Ah-jung (Chao-hung Chen), venditore ambulante. Rapporti fatti di lunghissimi silenzi (il primo dialogo giunge a circa trenta minuti dall’inizio del film) e, come già si diceva, di domande che spesso non trovano risposta: relazioni insolute, mai godute appieno ma sempre e solo assaggiate, per poi fuggire, nuovamente, nel proprio microcosmo individuale, incurvati da un fardello doloroso ma inevitabile. Tsai Ming-liang ritrae i propri personaggi soli con loro stessi, in situazioni che usualmente non vengono mostrate (la masturbazione, o i bisogni fisiologici), senza mai perdere la leggerezza del tocco o risultare visivamente pornografico: al contrario, è proprio mostrando l’intimità del privato che il regista esprime l’affetto verso le figure che abitano le sue storie, riuscendo a creare un senso di empatia nello spettatore che può diventare vero e proprio struggimento. Emblematica, e magnifica, è la sequenza finale del film, i sei minuti di camera fissa sul pianto solitario di May, seduta su una panchina, l’esplosione di un dolore che invade anche chi guarda, azzerando la distanza tra spettatore e immagine sullo schermo, poiché il dolore della donna ci porta lì con lei, in quel preciso istante.

Un male di vivere che è accettato in quanto parte integrante del proprio mondo, dove la rassegnazione è soltanto apparenza poiché il vero sentimento è la dolorosa consapevolezza della propria condizione. Tematiche centrali, che ritornano nello splendido Il fiume (1997), forse il film più cupo di Tsai, nel quale il malessere diventa sia fisico (l’insopportabile dolore al collo del protagonista) che simbolico, assumendo la forma dell’acqua (altro elemento ricorrente), che metaforicamente impregna la camera del padre attraverso il soffitto, e che l’uomo continuamente asciuga e raccoglie; con la sua assenza diviene incontenibile, inondando la stanza, allo stesso modo in cui May esplodeva nel proprio pianto disperato: anche in questo caso, non vi è catarsi, bensì la manifestazione di un dolore represso troppo a lungo. La famiglia disgregata de Il fiume (la stessa di Rebels of Neon God), nella quale marito e moglie sono come estranei e i legami diventano incestuosi, rappresenta l’impossibilità di trovare un rifugio sicuro nell’aggregazione: vi è una forza centrifuga e respingente, che porta i personaggi verso la propria personale deriva; la sequenza del rapporto sessuale tra padre e figlio è drammaticamente fortissima e pudica poiché girata nel buio quasi totale. La madre è donna privata di un Femminile ormai congelato, la cui sessualità cerca invano uno sfogo in una pornografia che la lascia indifferente, e nei tentativi di approccio verso il proprio figlio. Hsiao-kang, dunque, oggetto di desideri malsani e afflitto da un dolore fisico che è, assai apertamente, grido interiore che non può essere placato.

Il fiume del titolo è luogo, anch’esso simbolico, di quella che può essere considerata la sequenza-chiave, apparentemente slegata dal resto del narrato, in realtà più che mai coerente: una troupe cinematografica tenta di girare una scena nella quale un cadavere galleggia nel corso d’acqua; la regista è insoddisfatta del risultato, poiché il manichino è visibilmente finto e non vi è il realismo necessario. Hsiao-kang capita casualmente sul set, e riesce a simulare la figura di un corpo senza vita. Una morte recitata che segna lo stacco netto tra la prima parte del racconto, nella quale vi è un afflato di speranza, e la seconda, in cui gli scheletri e i dolori vengono galla, così come un cadavere sull’acqua.

Un cinema in cui la metafora è la forma linguistica primaria, potente portatrice di una consapevolezza dolorosa dalla quale i personaggi non possono, e fondamentalmente non vogliono, fuggire.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 10/02/2015

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