Il Club
Dopo la sua trilogia sul Cile, lo sguardo di Pablo Larraín cattura La Boca, infernale finis terrae dove sono reclusi i fantasmi di un intero paese.
"Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre" (GN 1.4)
Esiste altrove una luce della coscienza, tremita e stordita, ottenebrata dalla notte, dall’istinto e dal caos. Esiste un finis terrae per uomini dimenticati, reietti della società, respinti e abbandonati a se stessi e alla loro impossibile catarsi invernale. La sinderesi, che nella teologia medievale indicava la capacità morale di poter discernere il bene dal male, la giustizia dall’errore, è affondata nelle profondità oceaniche della Storia, assieme a tutti i fantasmi rimossi, a tutte le oscenità, a tutte le esistenze violate del passato.
Il nuovo film di Pablo Larraín guarda beffardo alla citazione biblica posta in testa ribaltandone fin dall’inizio le fondamenta. L’essenza della vita è una totale, radicale commistione di luce e tenebre, bene e male, speranza e oscurità. Non si tratta di una conciliazione di opposti, ma di una necessaria, inquieta coesistenza. L’oscurità conserva in sé la luce, perché non può esistere, non può essere percepita senza le sue luminose irradiazioni. Così il velo bluastro del giorno, la fede del buon pastore è fusa inestricabilmente con la sua stessa caduta. Contro qualsiasi semplificazione, il cinema di Larraín non conosce sintesi, ma solo lotta, conflitto, tensione inesauribile che diviene moto vitale. I rapporti umani sono in balìa di una profonda disarmonia, di un caos primordiale che ribolle sotto le superfici di un intero paese. L’uomo appare come naturalmente, strutturalmente propenso al male e al peccato, ed è questa sua disperazione, questo suo groviglio infinito, quest’angoscia senza sonno, a farlo sentire vivo. La vertigine, ancora una volta, trascina giù le figure, richiamandole al mare e alla terra e alla pesantezza del secolo. Ella impedisce di guardare altrove, di innalzarsi verso una verità che appare come un crudele spettro nel buio: è il sentimento stesso della lontananza, la consapevolezza che noi siamo la nostra stessa zona d’ombra…che noi amiamo, prima di tutto, la nostra disfatta, il nostro crudele, sadico annientamento. In queste terribili risonanze agostiniane, rimane desto il desiderio sfuggente di un angelo sempre negato, di una grazia indebita che veli gli occhi di lacrime e doni ai peccatori un perdono trasognato.
Il Club si svolge infatti a La Boca, squallido paese di mare sulla costa cilena, un luogo nascosto e dimenticato da Dio. Qui vivono quattro preti sconsacrati e una suora abbandonata dalla grazia: percorrono lo schermo come demoni che dormono con gli occhi aperti. Le loro giornate, sempre uguali, s’inarcano nell’angoscia e nel silenzio asfittico della memoria: in quest’altrove privo d’amore e compassione, i demoni sono nascosti, reclusi, lontani dagli occhi del mondo, come ferite lancinanti di un Paese che prova, ma non riesce, ad andare avanti. Ladri di bambini figli della dittatura, preti pedofili, radici di un male inestirpabile: La Boca, affacciata sull’oceano, è il portale verso un abisso di perdizione. E padre Garcia, gesuita giovane e bello, figlio della nuova chiesa, è chiamato a inquisire gli abitanti della casa del pentimento. Ma proprio lui, apparentemente puro, si perderà come gli altri nelle stesse perversioni terrene che condanna. Così come Sandokan, vittima di violenze sessuali da bambino, conduce una non-vita nel tarlo ossessivo della sua verginità violata da un prete: egli non conosce più altra forma di piacere che non sia il dolore, più altro futuro che non sia il suo stesso passato.
Larraín modella la forma, desatura i colori, ci immerge nella proiezione deforme e perversa di un estremo slittamento di valori. Usa un obiettivo russo già impiegato da Tarkovskij, espande i confini delle immagini, fa leva sul fuori fuoco di una visione nebulosa. E mentre immerge nella luce bluastra i suoi protagonisti, li getta in un inferno di bagliori oscuri e confessioni inaccettabili. L’umanità permane come residuo di sguardo presente in Larraín: ogni primo piano è un terremoto emotivo, una forza terribile e densissima, sempre pronta a oltrepassare i confini del formato.
In questo cinema del dolore che esclude ogni partizione binaria, qualsiasi facile manicheismo, Larraín inserisce la violenza e la morte come risoluzioni illusorie, urgenze antipietistiche che squarciano tutto ciò che rimaneva di umano. La violenza assurge a spietato atto sacro, dove il sangue si fa liquido espiativo, possibilità di una nuova vita. E nel far questo disarciona qualsiasi certezza: rimane in lui, nel suo sguardo, un’umanità, una fermezza, una coerenza che permea l’abisso di nefandezze morali che racconta. Larraín dopo la sua trilogia sul Cile, continua a fare del cinema un urgente atto politico, lontano anni luce dal pamphlet di facile morale. Anzi, ormai è così consapevole del suo lavoro, da poterlo far sfociare nella triste parabola di un mondo capovolto. I suoi peccatori, chiusi nella loro frontalità, sono intrappolati ancora in quel biblico specchio oscuro che gli impedisce di guardare avanti. Così come un intero paese, accecato dalla rimozione, chiuso in una bolla deforme incapace di separare luce e tenebra.