“…nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente…”
Giacomo Leopardi, Amore e morte
Caulonia, un piccolo paese della Calabria, tanto arroccato quanto impervio da raggiungere. Un racconto di gesti, definiti dallo scandire degli ultimi attimi di cuori stanchi, confusi tra i lenti respiri affaticati dall’anzianità. Il gesto quotidiano del risveglio di un anziano, il buongiorno dato alla sua terra e corrisposto dalla scoperta del proprio cane morto; gli attimi di una ragazza, la puttana che è anche la “scema del villaggio”, benedetta giornalmente dal credo locale con acqua ed olio, un ritardo psicologico curato dal malocchio. Il paese che si aggroviglia in una salita, su una rocca lontana quasi un secolo dall’evoluzione tecnologica. Anziani sul bastone e ragazzi in motorino. La vita del paese che si ripete rovesciandosi su se stessa, racchiusa nella monolitica presenza stentoria del paese costruito per gambe forti, palestra per un’altalena naturale di salite e discese; costruite per arrivare su, in alto dove vive il paese, per poi lasciarsi cadere giù, in basso dove dorme e dove viene lavorata la terra che gli appartiene. Una foto porno ed un telefonino lasciati da alcuni ragazzi, arrivati per aiutare l’anziano a seppellire il proprio cane in cambio di qualche piccola banconota, oggetti che smuovono per l’ultima volta la già stanca volontà del vecchio. Tutto si racchiude nell’ultimo gesto prima del riposo eterno, l’ultimo dono di un anziano fatto alla giovinezza, i risparmi usati per comprare un motorino, l’unico mezzo in grado di salire le ripide salite del paese senza l’aiuto di nessuno, ed evitare così lo scambio di cortesia tra chi ha la macchina, come gli uomini, e chi ha la bicicletta, come la “pazza” che offre il proprio giovane corpo a chi le da’ un passaggio. La vita che si stempera nel lento ritmo della vecchia provincia, vita viva solo nel ricordo lontano del vecchio, sbiadito come una primavera o un’estate troppo distanti e brevi, una vita già vissuta nella sua interezza e che precede l’attuale inverno, quella stagione finale che apre alla morte e che spesso coincide con una nuova primavera.
Michelangelo Frammartino, regista milanese di origini calabre torna alle radici del suo albero genealogico, piantato nel sud della nostra penisola. Dopo numerosi cortometraggi ed alcune istallazioni di videoarte ( l’ultima istallazione Alberi del 2012 è l’ultimo suo lavoro), l’architetto milanese firma la sua opera prima, Il dono, che precederà di otto anni il successivo film, Le quattro volte del 2010, che prenderemo in esame nel prossimo articolo. Per alcuni è Kiarostami il mentore dietro allo stile scarno e documentaristico di Frammartino, per altri il suo cinema si avvicina alla poeticità di Piavoli, per il sottoscritto più vicino a quest’ultimo. L’accostamento tra i due si conferma in molte affinità, che partono dalla luce naturale con particolare attenzione alla resa fotografica dell’inquadratura, fino al silenzio delle voci, o quantomeno al loro ruolo di sottofondo rumoristico, arginando così una narrazione forte a favore dell’essenziale mancante di dialoghi portanti propri della scrittura cinematografica. Per i registi sono i suoni e i rumori dell’ambiente a descrivere meglio la realtà che ci circonda, molto più chiari rispetto a righe di dialoghi o monologhi. Il mondo è fatto di corpi e di natura, molto spesso questi due elementi si confondono, i primi richiamano la necessità della seconda che a sua volta tutto comprende, anche i suoni stessi, quest’ultimi già impliciti nell’essere vivi.
Anche se nel Il dono è la morte senile, l’ineluttabilità della decadenza fisica dei corpi che la fa da padrone. La vita dell’anziano, dal suo risveglio nella piccola casetta di campagna fino alla sera, è scandita da un mortifero susseguirsi di situazioni di decadenza fisica, sia umana che animale. Intorno al vecchio muoiono: prima il proprio cane, anch’esso anziano, poi alcune galline, poi la morte è impressa sui volti degli abitanti del paese, la fine è appesa su un poster di un corpo nudo femminile, o sul volto stesso dell’uomo. Decadenza e novità tecnologica che avanza, come un telefonino, un argine generazionale, l’inadeguatezza al nuovo, un’epoca diversa che corrisponde ad una generazione in estinzione, quella precedente alla nostra, quella dei nostri nonni. Il telefonino è anche simbolo di rimando ad un altrove distante dalla casa dell’anziano, dove regna una frenesia comunicativa non compatibile con quel quotidiano e stanco incedere. L’ineluttabilità riempita da singhiozzi di pieno tecnologico, un passaggio generazionale forestiero che risiede oltre i confini stessi del paese che il vecchio vive.
La vita che rimane ancorata fino all’ultimo respiro buono per vivere, l’ultimo sussulto dell’animo donato da una foto porno che risveglia situazioni sessuali non più possibili, improbabili per la tarda età che il protagonista vive. Donne nude come santini nei parruchieri, immagini bidimensionali di una carnalità ricordata nostalgicamente ma incapace di manifestarsi. Un gioco muto di amore e morte, passione estinta e fragilità fisica. Il paesaggio calabro, il suo costante vociare attraverso i suoi suoni naturali, è il protagonista principale che tutto incorpora, terra, paese e uomini. Il campo dell’inquadratura ne è solo una parte, una zona scelta dal tutto che la circonda, in un costante gioco tra dentro e fuori, interno all’inquadratura ed esterno al fuori campo. La stessa abitazione dell’anziano non è uno spazio chiuso ma una finestra verso la natura che la circonda. Ed il paesaggio si appropria delle costruzioni umane, annullando la logica dell’umana edificazione alla maternità austera della natura stessa, che sa nascondere la casa nella campagna ed il paese nella roccia. Inoltre, utilizzando un lungo susseguirsi di campi lunghi, lo spettatore è costretto a cedere al tempo narrativo lungo e sedentario del’immobilità della camera, rendendolo partecipe nella contemplazione del totale della composizione: “Questi campi lunghi lasciano la libertà a ognuno di andare a cogliere le proprie cose” dichiarerà il regista in un’intervista a Close-Up. Il primo lavoro di Frammartino potrebbe definirsi come un Docu-diario espressionista, in quanto la realtà soggettiva ed individuale del suo lavoro si apre verso un’adiacenza documentaristica soggetta al suo sguardo, restringendola nella cornice del quadro, attraverso un margine infinito dell’immagine aperto al fuori campo. Questo è forse ciò che lo differenzia dai lavori di Piavoli, quest’ultimo più definibile impressionista al confronto, dato che la realtà oggettiva, la natura, è per lui il punto di partenza per uno sguardo soggettivo e personale, una modulazione artistica ed estetica della natura e della sua ineluttabile ciclicità; se in Frammartino è uno sguardo umano che vive a contatto con la natura, in Piavoli è un riflesso naturale che dà vita all’uomo, egli è l’abitante frutto del mondo, l’ombra singola di una totalità che appartiene solo alla terra che abita. Entrambi rinunciano al dialogo che costruisce la narrazione, riconoscendo al cinema documentaristico le sue caratteristiche fondamentali: il suono in presa diretta, che Piavoli ricostruirà tutto in post, creando dei magnifici effetti sonori asincroni; e la principale depositaria del valore di unica e sola narratrice, l’immagine appunto.
In una sequenza dei bambini giocano e la vita corre come un pallone che cade tra le tante stradine in discesa del paese, rimbalzando su portoni, spigoli, marciapiedi, scendendo sempre, finché il paese finisce ed il pallone si perde nel fondo della campagna, tra ulivi mischiati a rottami di auto, o ancora più lontano, arrivando alla deriva di spiagge di navi naufragate, e forse scendendo ed arrestandosi a guardare il pallone diventato ormai irraggiungibile, il bambino è anche già troppo invecchiato. Ma questo il regista sottilmente non ce lo mostra. Un’opera prima aperta ad interpretazioni, con un finale che corrisponde ad una pausa forte quanto un punto e virgola nella narrazione intrapresa. Un film di suggestioni, un film che non parla nonostante non sia muto, che non suona nonostante non sia sordo, ma che riesce a condensare nell’occhio di chi lo guarda e nell’orecchio di chi l’ascolta tutta la poesia implicita nella nostra quotidiana realtà.