Il fuoco della vendetta
Una storia noir di redenzione e vendetta che non può che chiudersi nel terreno d’elezione del cinema americano, il western
Uno dei requisiti più importanti per riuscire nel cinema di genere è saper trovare la differenza tra giusto e prevedibile, tradizione e calco. E’ il gioco del classicismo, di sapersi collocare in un filone che comunichi con lo spettatore che già sa, che conosce e si aspetta le svolte e i temi portanti ma è lì inchiodato allo schermo perché sono proprio quegli elementi conosciuti che vuole ritrovare. La trincea in cui vive il classicismo americano di oggi è lo scarto tra tradizione e innovazione, un limbo confuso e nebbioso in cui serve un talento specifico per orientarsi. Un’abilità che Scott Cooper conosce, ma che non riesce a sfruttare fino in fondo. Il fuoco della vendetta poteva essere un altro tassello importante di quella riscrittura iconografica operata da certo cinema americano negli ultimi anni, ma qualcosa non ha funzionato. L’opera seconda del regista del bel Crazy Horse è sicuramente un buon film, ma la consapevolezza di ciò che sarebbe potuto essere ne pregiudica di molto il giudizio.
Ambientato in una piccola cittadina nata attorno ad un’acciaieria e tra boschi abitati da cervi, Il fuoco della vendetta pullula di dichiarazioni d’intenti, ribadisce con l’ostentazione dei topoi adottati di volersi collocare nello spettro più dannato del filone classicista, imbastendo una storia noir di redenzione e vendetta che non può che chiudersi nel terreno d’elezione del cinema americano, il western. Protagonisti sono una coppia di fratelli, Russel e Rodney Baze, Christian Bale e Casey Affleck, l’uno lavoratore in un’acciaieria e l’altro soldato speciale impiegato in Iraq, l’uno che tende alla normalità e l’altro alla distruzione. Sul loro percorso troveranno il bestiale Curtis DeGroat, montanaro dedito alla metamfetamina e alla lotta clandestina incarnato da un gigantesco Woody Harrelson, ormai l’attore più noir del cinema americano di oggi. Ma i grandi nomi non sono finiti, Willem Dafoe, Sam Shepard e Forest Whitaker arricchiscono questo cast all star, e su tutti loro Cooper cuce personaggi credibili e sfaccettati, tratteggiati con cura nei piccoli gesti sparsi che arricchiscono la narrazione. Ma soprattutto attorno a questi volti del grande cinema americano il regista imbastisce una confezione quasi impeccabile, dotata di grande rigore nella messa in scena e di un gusto particolarmente ricercato nella resa dell’immagine, spesso virata di un rosso autunnale. Malinconico e torbido, Il fuoco della vendetta vuole precipitare proprio da dove i suoi personaggi cercano di scappare, nella fornace incandescente posta a cuore di una nazione che ha nella globalizzata urbanizzazione delle sue città più famose solo i suoi lustrini più superficiali e scintillanti. Il cuore dell’America è ancora sepolto nei boschi profondi degli Appalachi, nelle comunità industriali nate attorno alle grandi fabbriche e popolate da piccoli, invisibili abitanti. E nella caccia al cervo, dove puoi cercare di trovare una giustezza assente nel resto del mondo o acuti presagi di morte.
Senza perdere in naturalezza, Cooper raccoglie con efficacia tutti questi elementi, portando a casa anche diverse ottime sequenze – su tutte, ovviamente, la caccia al cervo, e il duello western del finale – ma non il film, che non riesce ad essere all’altezza delle sue singole parti. E’ come se Il fuoco della vendettasi collocasse nello iato tra il sapere cosa mettere in un racconto e il farlo funzionare fino in fondo. Cooper, che dal punto di vista registico sembra più che maturo, difetta di mestiere nello sviluppo della sua narrazione, che sembra non partire mai e non riesce a fare a meno di alcuni passaggi terribilmente forzati. Manca il respiro necessario a rendere grande una materia così abusata o lo scarto personale che ad esso deve subentrare in sua assenza; troppo fiacco per essere classico e troppo prevedibile per essere innovativo, il film di Cooper difetta in una cifra impalpabile ma evidente, che con la sua natura conferma la natura evanescente del talento di saper raccontare e ricavare il meglio dalla tradizione.