Il grande quaderno
L'adattamento lucido e impietoso del celebre libro di Ágota Kristóf celebra lo sguardo nitido sulla guerra di due dotatissimi fratelli gemelli
Quando nel 1986 uscì Il grande quaderno, il successo di questa fiaba spietata sulla guerra rivelò il talento sorprendente di una nuova autrice, l’ungherese Ágota Kristóf. Da allora, confluito nella Trilogia della città di K. (in cui si aggiungono gli altri due volumi La prova e La terza menzogna), il primo libro ha continuato ad appassionare lettori di tutto il mondo con il suo stile puntuale e atroce. L’uscita in sala dell’adattamento cinematografico rappresenta quindi, in virtù di un referente così importante, una rischiosa scommessa che possiamo ritenere vinta nella misura in cui il film riesce a riportare in immagine la straordinaria esperienza dei due protagonisti.
Il grande quaderno è infatti il luogo dove due gemelli, apparentemente indistinguibili nell’aspetto e nell’identità – la voce narrante di libro e film è infatti declinata al plurale – descrivono dettagliatamente tutto ciò che è loro accaduto da quando, all’arrivo della Seconda Guerra Mondiale, la madre li ha affidati alla nonna, una crudele vecchia da tutti soprannominata La Strega. Calati nell’improvvisa durezza della vita durante la guerra, e privati di ogni affetto e cura, i due bambini decidono di addestrarsi meccanicamente alla sopravvivenza, ideando una serie di esercizi fisici e spirituali atti a rafforzare il loro carattere. Ciò significa studiare, imparare a resistere alla fame, al freddo, ai lavori pesanti, ma anche dimenticare i genitori per non soffrirne l’assenza, picchiarsi e insultarsi vicendevolmente per diventare indifferenti alle ferite del corpo e dell’anima. Rimane una sola debolezza da affrontare: la primordiale incapacità di venire separati.
L’intelligenza del film sta nel mantenere l’elemento vincente dell’opera di Ágota Kristóf,: rispetto alla convenzionale narrazione che vede i bambini come vittime di guerra, Il Grande Quaderno non presenta i due piccoli protagonisti come individui traumatizzati e sopraffatti, quanto consapevolmente alterati nella loro umanità. Poiché la guerra è disumanizzante, per sopravvivere bisogna adeguarsi al suo brutale processo, accettando di introdurre nella propria vita i suoi elementi principali. I gemelli imparano a uccidere, pur controvoglia, perché si devono abituare; non si negano né la prepotenza, né la vendetta o la ritorsione; ma in questa spietatezza, che attira e disgusta lo spettatore, mantengono un rigore morale che definisce precisamente cosa è bene o male.
Il grande quaderno è pertanto un’opera cupa, la cui ferocia è dominata da uno stile narrativo controllato e puntuale: il film stesso si fa preciso diario visivo, pur scegliendo di descrivere le peggiori atrocità dei conflitti bellici con i disegni dei gemelli, che possiedono la stessa neutralità stilizzata di tutte le testimonianze grafiche prodotte dai bambini in tempo di guerra. Considerato però il fatto che in relazione agli due volumi della trilogia il primo assume un significato speciale rispetto a quando viene approcciato nella sua unicità, l’atmosfera ferocemente fiabesca dell’adattamento cinematografico richiama la dimensione della metafora infantile della guerra quale luogo di morte e prepotente vitalità. I due protagonisti, dotati di straordinaria intelligenza e capacità come sono certi eroi delle favole, privati dei genitori e costretti a vivere con una terribile “strega”, ovvero la nonna, superano prove efferate senza mai fallire. Ma nel racconto di guerra, pur traslato sul piano immaginario, non può esistere il lieto fine: sopravvivere significa uccidere una parte di sé – a volte la compassione, a volte un fratello amato - per poter andare avanti.