Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
e abbiamo deciso di imprigionarli
durante l’ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un’altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti [...]
Fabrizio De Andrè, Nella mia ora di libertà
Il dibattito sulle carceri italiane aleggia su di noi perennemente, senza però che riesca a ingranare in quel sussulto che porterebbe l’attenzione che merita su uno dei tanti problemi che questo paese deve risolvere, alla svelta. Il loro Natale di Gaetano Di Vaio, punta il cavalletto in direzione delle sbarre di Poggioreale, carcere che ospita attualmente quasi duemila detenuti. Ma è nel microcosmo dell’individuo che il suo lavoro va a parare, non nella generalità del contesto; i problemi del singolo sono le fondamenta per la realizzazione di questo lavoro che pone domande generali, senza aver mai la presunzione di voler fornire risposte, con lo scopo nobilissimo e mai abbastanza perpetrato, di voler documentare. In un paese nel quale l’informazione va sottoposta a mille gradi di giudizio prima di poter esser ritenuta spoglia d’interessi, l’asciutta visione di chi filma e non rivela, lasciano che in noi risorga la piacevole sensazione dell’opinione che sa formarsi, dell’idea che ha la facoltà di dissentire da quella di chi ti siede al fianco, senza che l’imbuto demagogico di chi vuole istruirti più che formarti l’abbia vinta. Ma il documentare non cela forme nuove d’ignavia né lassismo ideologico, stimola anzi la partigianeria più pura, quella non indotta.
Da questi binari, le donne, le fidanzate, le mogli e le compagne dei detenuti si fanno protagoniste del lavoro di Di Vaio: sono loro che si espongono e si confessano davanti all’obiettivo, loro che candidamente sciorinano la vita non esemplare dei mariti o dei figli, e sempre loro che faticano in maniera disumana per mandare avanti la famiglia, per non lasciare che la povertà le sovrasti. I racconti iniziano ad allacciarsi, le voci di Mariarca e Maddalena partono forti e decise, salvo rompersi pian piano, sotto gli occhi vigili dei bambini che tra un gioco e l’altro tutto comprendono. Lavori multipli per arrivare a uno stipendio che permetta di andare avanti e di metter qualcosa da parte da portare ai mariti, per “comprare una stecca di sigarette, un dentifricio, uno spazzolino”. Scampia è la cornice di un quadro mesto, elogio dell’anti-stato malavitoso, troppo spesso molto più solerte delle istituzioni nell’offrire la sua costosa mano d’aiuto. La camorra è la diretta conseguenza dell’assenza dello Stato, dicono le donne; ma la camorra è ancor più dimostrazione della sua putrida esistenza, potremmo aggiungere. Tra una tombola e un pasto da preparare per il colloquio del giorno successivo, oltre una fila interminabile di gente che attende il suo turno per scambiare poche parole con chi tutta la settimana non aspetta altro momento, dentro le mura domestiche di una casa occupata, la macchina da presa si muove silenziosa e invisibile, come fosse davvero l’occhio inconsapevole di chi non sa e vuole conoscere, di chi ignora ma si muove nella continua ricerca di un punto di vista; niente triclini da cui deliberare inopinabili sentenze, ma l’occhio di uno spettatore che non vuole tramite tra lui e il fatto descritto: non il regista, non lo sceneggiatore, non l’interprete, solo lui e il narrato.
È in questa ottica d’invisibilità che Il loro Natale colpisce e convince, ma è anche e soprattutto nel tema trattato che si scolpisce, immagine dopo immagine, nella mente del suo fruitore; Di Vaio ha il merito di raccontare una storia ascoltata da un punto di vista nuovo, le sbarre non sono stavolta quelle di chi può guardare a stento ciò che c’è fuori, ma quelle di chi non percepisce cosa avviene dentro. E così gli stati d’animo dei detenuti sono trasmessi attraverso lo scoramento di chi li attende a casa, nelle giornate sempre uguali di chi non ha a che fare coi secondini né coi compagni di cella, ma con i figli e con i problemi domestici.
Il loro Natale è ancora un ulteriore esempio di quanto, chi ama le forme dell’audiovisivo, nell’Italia di questi anni debba rifugiarsi nel documentario per trovare il fascino gradito della bellezza.