Il parallelo è evidente, sentito sulla pelle e nell’anima, condiviso nella pratica conseguenza per quanto agli antipodi nella sua genesi. Gaetano Di Vaio porta con sé il marchio dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, un carattere permanente per quanto retaggio di un passato criminoso rinnegato e abbandonato, anche grazie al cinema e alla cultura. Da qui il legame non può che nascere robusto ed evidente con chi, come i protagonisti di questo splendido documentario, è a sua volta segnato da un marchio, quel’esclusione dalla società civile determinata da un ordine di cose freddo e spietato, figlio di un potere sordo quando non connivente.
Presentato all’interno della vetrina di Prospettive Italia, Interdizione perpetua è il nuovo lavoro diretto da Gaetano Di Vaio e realizzato dalla sua Figli del Bronx, realtà partenopea fondata nel 2007 a partire da un’associazione culturale impegnata nel sociale. Creata assieme a Carlo Luglio, Pietro Pizzimento e Fabio Gargano, la società di Di Vaio è oggi una delle realtà indipendenti più interessanti e valide, alla quale si devono lavori come La-bàs – Educazione criminale, Il loro Natale, Radici, Sotto la stessa luna, Quando le mule partoriranno, e ancora Napoli, Napoli, Napoli, diretto da Abel Ferrara. Il loro è un lavoro che, oscillando tra fiction e documentario, continua a mettere al centro della scena coloro che ne vengono sistematicamente eliminati, quei “figli del Bronx” a cui il cinema può e deve restituire dignità rappresentativa. Ne sono un perfetto esempio i protagonisti di questo documentario, vari abitanti di Napoli e dintorni (non solo italiani) che per anni sono riusciti a sopravvivere inventandosi il mestiere del robivecchi, di colui che gira per le cataste di rifiuti abbandonati per strada cercando qualunque cosa che sia riciclabile e vendibile ai vari rivenditori, dal ferro al rame, dalla plastica all’alluminio. Era una professione utile quella del robivecchi, che permetteva di creare lavoro dove non ne esisteva, e di facilitare la pulizia delle strade e il riciclo ecologico di molti rifiuti ingombranti. Lavatrici, scaldabagni, motori venivano infatti smontati nei loro componenti e rivenduti divisi per materiali, aiutando per certi lo Stato in uno dei settori in cui si trova cronicamente in ritardo. Tutto questo però va descritto al passato, poiché ad un certo punto sempre il suddetto Stato ha deciso di dichiarare tale pratica illegale, soggetta nel solo caso autorizzato ad una serie di pratiche economiche e prassi burocratiche inaggirabili per chi quel lavoro ha dovuto inventarselo in assenza di altro. La pratica era certo lasciata allo stato brado, priva di controlli o eventuale tassazione, ma ancora una volta il potere si rivela un medico sordo e cieco che crede di risolvere una delicata operazione chirurgica usando martello e scalpello al posto del bisturi. Il risultato di un intervento così programmaticamente goffo è lo scompenso economico (e quindi sociale, e quindi psicologico) di decine e decine di famiglie, diverse delle quali costrette ad emigrare in cerca di lavoro. Svelando questa paradossale realtà, Di Vaio segue alcuni dei vecchi robivecchi, gente che ha dovuto rimediare a quella mancanza improvvisa di lavoro con sacrifici estremi, inchiodati sempre più ad un territorio che nulla o poco più offre mentre lo Stato mantiene perpetua la propria assenza.
A confermare il carattere collettivo della realtà messa in piedi da Di Vaio, a seguito del suo Interdizione perpetua è stato proiettato anche L’uomo con il megafono, altra produzione Figli del Bronx diretta da Michelangelo Severgnini su soggetto suo e dello stesso Di Vaio. Protagonista di questo affascinante viaggio di scoperta è Vittorio Passeggio, giustamente definito dal pressbook stampa “un piccolo don Chisciotte di periferia”. In occasione delle nuove elezioni comunali (che porteranno alla vittoria De Magistris, trasversalmente presente nel documentario) Passeggio torna a farsi sentire nel territorio su cui ha speso negli anni tante delle sue energie: Scampia, e in particolare quei mostri architettonici di sofferenza sociale e umana quali sono Le Vele. Una frontiera in cui quotidianamente lotta il Comitato Vele Scampia, che Severgnini segue attraverso i gesti e la voce e il corpo del suo protagonista, costantemente in prima fila per cercare di risolvere una situazione ignorata dai più, nonostante tale impegno si tramuti spesso in minacce ed intimidazioni. Questo pedinamento permette così a L’uomo con il megafono di entrare con mano nuda nella realtà abitativa delle Vele, portando lo spettatore in una dimensione materica e violentemente concreta nella sua immediatezza. In parallelo a quest’esplorazione il lavori di Severgnini non rinuncia però al lato umano, presentando storie commoventi senza strategie o scorciatoie di sorta, personaggi lasciati indietro dalla società e condannati anch’essi all’interdizione perpetua. In questo senso i due lavori presentati al festival sono accumunati dallo stesso protagonista, lo Stato, che nella sua assenza determina le condizioni primigene da cui essi nascono.