Il pane a vita è un’opera documentaria che rischierebbe di venire inglobata nel mainstream reportagistico di approfondimento televisivo sulle ripercussioni estreme della crisi globale del lavoro, se non fosse per quell’inedito sentimento di “resistenza malgrado tutto”, che a tratti buca la drammaticità incombente, facendo vibrare nel tenore spento della narrazione barlumi di desiderio, inattese risa, bagliori di sana umanità. Non sarà un caso che prima di addentrasi direttamente nei chiassosi, quanto vani, presidi di protesta degli operai fuori dalla fabbrica, la sequenza introduttiva del film indugi sul canticchiare lieve di una delle protagoniste, che lavora alla macchina da cucire. Il regista, Stefano Collizzolli, all’interno delle produzioni Zalab, in collaborazione con la Caritas della diocesi di Bergamo, la fondazione Adriano Bernareggio e Rai Cinema, ci conduce ad Albino, in un angolo della valle bergamasca, per dichiarare perentoriamente che ciò che consideriamo “solo” una sconvolgente, negativa congiuntura economica, è in realtà quello che nel 1975, per altri versi, il poeta-profeta Pier Paolo Pasolini definì un “genocidio culturale”: la perdita irreversibile di valori – lucciole, saperi – lucciole, nella morsa della barbarie politico-industriale. Il pane a vita, vincitore del premio Travailleurs du monde al Millennium Doc Festival di Bruxellex, ci parla infatti della inverosimile fine della “cultura del lavoro”, quale portato di trasmissione generazionale, patrimonio identitario collettivo. Nell’ottobre 2012, dopo più di un secolo di attività, il cotonificio Honegger chiude i battenti, per dislocarsi altrove, magari in Africa in cerca di nuove convenienze di mercato, ma la voragine che lascia fuori dai cancelli serrati non è solo l’evidente incapacità occupazionale, bensì il ben più lacerante strazio storico e sociale, l’espropriazione di una intimità familiare saldata nel passaggio del medesimo lavoro di madre in figlia, persino al medesimo telaio, nell’orgoglio di esibire la medesima bravura come fosse nobiltà di lignaggio. E se come afferma una delle tre protagoniste principali, “C’è storia nell’azienda”, appare ineludibile soffermarsi sul suo epilogo inglorioso, perché rintracciabile in discutibili e aggrovigliate gestioni aziendali. La perdita del lavoro piomba come una calamità, che purtroppo non ha nulla di naturale e pertanto viene rigettata come un’ingiustizia impossibile da tollerare, da rimettere all’imperscrutabilità della sorte.
Le rivendicazioni urlate a gran voce o inscritte negli slogan di protesta rumoreggiano qui e ora, eppure paiono quasi soccombere nel mutismo paradossale dei luoghi stessi in cui si innalzano. Cattura lo sguardo il dettaglio dello striscione, recante il motto “teniamo duro per il futuro”, annodato alla segnaletica stradale di un rondò, con frecce che girano in tondo, a vuoto in un ripetersi uguale a se stesse. Un ripetersi di accuse e scusanti tra parti in causa inconciliabili, da un lato gli indici innocenti, puntati contro il giovane titolare dell’impresa, che ripiega all’estero e nella coscienza privata, dall’altro lo stesso uomo che si fa piccolo e indifeso, schiacciato dalle pressioni fiscali. Un vittimismo imperante che ci manifesta brutalmente e ancora una volta l’involuzione italiana, intellettuale e pragmatica, di uno “sviluppo” industriale indifferenziato, cui mai ha fatto seguito il “progresso” dei diritti legati al lavoro, alle riforme di sostegno e tutela del lavoro stesso. I padroni sono rimasti figure paternalistiche e dove termina il loro potenziale sentimento pseudo-filiale iniziano i loro inesorabili interessi personali. Quei padroni che nel corso del tempo non hanno mai assunto la fisionomia di imprenditori guidati da logiche etiche, combinazioni di investimenti economici e politiche sociali. Il tempo è fermo, congelato negli immensi capannoni deserti, svuotati della presenza di uomini e donne, eppure colmi di materiali e macchinari da lavoro, lì pronti per essere azionati; il tempo è fermo, anche quando sembra tornare indietro, al passato del miracolo economico, attraverso gli inserti di immagini d’archivio. Nell’incantesimo filmico del montaggio, una delle protagoniste principali ricarica un pendolo che prende a ticchettare, accostato per contrasto al frastuono assordante delle immagini in bianco e nero della produzione in fabbrica, attrezzature – impalcature dalle cui cavità l’obiettivo coglieva i volti assorti delle operarie. Riconoscibili stralci del documentario Essere donne di Cecilia Mangini ci rammentano quelle donne, madri di famiglia, che avevano nell’accesso in fabbrica il riscatto dalla miseria, ma al prezzo di sacrifici e scelte parimenti estenuanti. Ed è forse proprio questo doversi ritrarre oggi, privi di alternative e speranze, nel rimpianto di un duro passato, a darci il senso della tragicità attuale.
Da Ottobre a Marzo 2012, Collizzolli ha accompagnato le sue tre protagoniste, Lara e le gemelle Liliana e Giovanna, operaie in cassa integrazione, tra i 40 e 50’anni, nelle loro passeggiate solitarie, nelle brevi chiacchierate in casa, luoghi di rinunce quotidiane e disagio. Ripercorriamo, dunque, i confronti delle buste paga a zero euro, i raduni sindacali per il reinserimento professionale, senza che nulla attenui in qualche modo la disillusione, la tristezza e la rabbia, per la frustrazione di un desiderio che ancora arde: tornare alla propria vita, tornare a ciò che era gesto d’amore transizionale, non solo nella creazione artigianale, ma anche nella relazione comunitaria. “Non si tratta tanto del lavoro fisico, ma della compagnia” conclude Liliana, vantando a se stessa il maggior pregio ora acquisito da un vecchio video che la ritrae al lavoro. Ricordo, esperienza, tradizione, scambio, che un tempo irradiavano felicità ed ora volgono al tramonto. Eppure è proprio in questo volgere della luce alla semioscurità, che il declino si eleva a dignità nella conversione formale di vecchie immagini in immaginazione. Nel mise an abyme delle protagoniste che rivedono se stesse al lavoro, mentre lo spettatore apprende le loro testimonianze, la sofferenza del ritirarsi si trasforma in discorso in movimento e quel desiderio di agire malgrado tutto continua ad assolvere al proprio compito di messa in comunione con l’altro.
“Il senso di un’azione, scrive Hannah Arendt, si rivela solo quando l’azione diventa una storia suscettibile di narrazione. Ed ecco come si sarebbe prodotta una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano […] da qualche parte nella lacuna aperta tra memoria e desiderio […] nella lacuna tra passato e futuro […] sarebbe questa l’infinita risorsa delle lucciole: il loro ritirarsi senza ripiegarsi su se stesse”1.
1. Georges Didi – Huberman, “Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze”