Il pretore
Piero Chiara, Giulio Base e il cinema di genere ormai televisivo. Un tentativo lodevole nelle premesse ma rovinoso nella realizzazione.
Vendere un libro è come vendere un cavallo: si può sperare che il padrone lo tratti bene, non lo sforzi, lo nutra a dovere, ma poi non si può andare a controllare come sta. Il nuovo padrone lo può anche macellare. (Piero Chiara intervistato da Ornella Ripa per Gente, 2 giugno 1977).
Aridanghete! Ecco che nuovamente si è azzardato l’ennesimo tentativo produttivo di recuperare il cinema di genere italiano, che nei pre-edonistici anni Ottanta aveva sfornato una marea di pellicole e dato lauti guadagni anche a improvvisati produttori. Un cinema bis che con poco budget soddisfaceva il pruriginoso pubblico scopofilo di bocca buona. Western, horror ed eros in primis, ma anche commedie volgarotte e drammi strappalacrime. In questo marasma c’era anche un tentativo bislacco di realizzare opere con radici “nobili”, attraverso l’adattamento di romanzi di stampo popolare. Con l’espansione della televisione generalista e poi della VHS, che avevano determinato una netta modifica della fruizione di tali prodotti, il bis italiano artigianale scomparve. A metà degli anni Novanta ci fu poi una avventata riesumazione speculativa. L’opera in questione era Chiavi in mano di Mariano Laurenti, una ottimistica e sempliciotta rivalorizzazione della feconda "commediaccia erotica" italiana. Recupero dettato dagli insistenti cori cinefili provenienti dalle nascenti fanzines cine-amatoriali (Amarcord e Nocturno) ma soprattutto dall’outing peccaminoso di Walter Veltroni e Oliviero Diliberto, che rivalutavano Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda di Mariano Laurenti e con la popputa starlette Edwige Fenech. In sostanza un liberatorio urlo come quello del Rag. Ugo Fantozzi ne Il secondo tragico Fantozzi. Beh, dopo tutto il muro di Berlino era già caduto, quindi era forse giunto per loro anche il momento di un disgelo verso quel cinema popolare, lontanamente capitalista. In aggiunta a queste viziose dichiarazioni è poi arrivato Cacini/Tarantino, e il cinema di genere italiano, quello duro e rozzo del poliziesco/horror/thriller acquista un’aurea di autorialità. Però come convalida Tarantino e il nostro Marco Giusti, anche nel trash a volte vi era ravvisabile una certa politica degli autori. Cioè c’erano dei registi che riuscivano a inserire nel mero prodotto commerciale una loro caratteristica autorevole.
Purtroppo, o per fortuna, queste rispolverate cinefile/economiche non hanno avuto fortuna. Chiavi in mano fu un grosso insuccesso e anche i "ritorni" diretti dai Vanzina Brothers non hanno lasciato segno alcuno. Il problema è che è cambiata la società ma soprattutto è cambiato l’assetto distributivo delle pellicole. Prima c’erano le sale di prima, seconda e terza visione (e quelle parrocchiali), adesso con l’avvento della televisione permane solo la sala numero uno, che è riservata ai blockbuster americani o ai comici italiani del momento. I film di genere avevano successo solo nelle sale di "borgata", perché non avevano accesso alle sale primarie. Con la scomparsa di detta gerarchia distributiva è scomparso anche il cinema genere (forse anche perché sono scomparse le borgate). Quindi, scomparsa questa capillare filiera, successivamente le pellicole considerabili trash o camp avevano avuto uno sbocco commerciale sulle videocassette (Straight-to-Video), e poi direttamente in televisione. Ma con il definitivo passaggio sul piccolo schermo, il trash si è dovuto adeguare, "mondando" alcune sue peculiare asperità visive e contenutistiche. Questo mutamento è certificabile anche attraverso alcune maestranze che avevano cementificato quel tipo di cinema e che adesso vivono (vegetano?) in prodotti televisivi. Infatti registi, sceneggiatori e attori di quel cinema bis è facile trovarli nei credits di molte fiction televisive.
In questo ulteriore recupero ecco che fa capolino il recentissimo Il Pretore diretto da Giulio Base, opera che disegna bene questo cambio e questa lontananza. Ok, Il Pretore non è veramente una pellicola che rimanda prettamente a quel cinema di genere losco e brusco degli anni Settanta, ma c’è un elemento di fondo (il soggetto) che in un certo qual modo ha preso parte ed arricchito - creando un “sottogenere” - quel mondo cinematografico ormai scomparso. Infatti il soggetto è tratto dal libro Il pretore di Cuvio di Piero Chiara, scrittore che ha visto la sua opera trasposta al cinema diverse volte, con esiti... Stracult. Inoltre il regista, Giulio Base, è in qualche modo ricollegabile al cinema bis, attraverso una carriera specchio di quella di alcuni registi degli anni ’70: dal grande schermo al piccolo schermo.
Piero Chiara (Luino 1913-Varese 1986) è stato un autore che ha fondato la sua opera letteraria nella descrizione della provincia lombarda. Hemingwayano nella vita (turbolenta e variegata) e fine studioso (è stato uno dei maggiori biografi di Gabriele D’Annunzio), i suoi libri sono stati spesse volte dei Best-Sellers. Ad esempio Il pretore di Cuvio ha venduto più di 150.000 copie e poi è entrato a far parte delle edizioni Oscar Mondadori. Questi gettoni pecuniari hanno spinto diverse volte i produttori ad acquisire il prima possibile uno dei suoi libri per trasporlo al cinema. Nel saggio «Come il maiale». Piero Chiara e il cinema a cura di Federico Roncoroni e Mauro Gervasini, viene riportata una sferzante dichiarazione di Piero Chiara: «Il cinema, vale a dire i produttori, ricercano i miei romanzi come soggetti cinematrografici perché la loro diffusione, che supera spesso, nell’anno, le 200.000 copie, è una garanzia di vendibilità del film». A tal proposito emblematico è l’esempio, anche sottolineato da Davide Pulici in un capitolo di detto saggio, de La stanza del vescovo di Dino Risi, dove tra l’uscita del libro e la messa in cantiere della pellicola passano solo una manciata di mesi. Il rapporto tra Piero Chiara e il cinema non è stato solo di passivo scambio, ma anche un proficuo rapporto; e non solo in termini di assegni. Chiara più di una volta ha collaborato alle trasposizione dei propri testi, oppure ha collaborato alle sceneggiature di pellicole non tratte dai suoi libri. E a queste collaborazioni, che poi si sono concretizzate in nitrato d’argento, bisogna aggiungere una manciata di sceneggiature non realizzate.
Con Il pretore di Cuvio, pubblicato nel 1973, Piero Chiara si proponeva di descrivere e mettere alla berlina nuovamente la piccola provincia lombarda attraverso la costruzione di personaggi minuti. Il microcosmo "fittizio" della provincia però come quintessenza caricaturale dell’Italia intera. Mediocri personaggi di una mediocre Italia fascista. Anche qui i temi di fondo, e che (s)muovono i personaggi e la trama, sono i bassi istinti, con l’aggiunta dell’arrivismo tipico degli insignificanti. Perno della vicenda è il Pretore Augusto Vanghetta (cognome che rimanda allo spreggiativo appellattivo reale di sua Altezza... Sciaboletta), tozza macchietta e uomo laido. Piero Chiara lo ha tratteggiato rozzamente – quindi finemente – come il tipico dozzinale omuncolo mosso da pacchiano carrierismo e iper-attivo nel basso istinto (la patta dei suoi pantaloni, sineddoche della sua personalità, è sempre unta). Attorno a questo protagonista ruotano gli altri "attori" del romanzo: la rimissiva moglie Evelina; il ligio sottoposto Landriani, e poi tutte gli antagonisti di contorno, che formano un colorato apparato corale provinciale. Come si è scritto qualche riga sopra, Il Pretore di Cuvio ottenne un ragguardevole successo di vendite. Per sfruttare questo esito già negli anni Settanta era pronta una ipotetica trasposizione sul grande schermo. La sceneggiatura, custodita nel Fondo dedicato a Chiara, mostra nella costruzione un gustoso e raffinato lavoro di traduzione cinematografica.
Partendo dal presupposto che Il Pretore di Cuvio è una colorata farsa con punte di salace umorismo scritto, nell’ipotetico film questa trama veniva arricchita con altri arguti elementi visivi. Praticamente l’intento dello scrittore di Luinoera quello di adattare la ruvida superficie del romanzo al volume liscio della pellicola. Nel già citato «Come il maiale» un intero capitolo («L’amore è una equazione» La riduzione per lo schermo di Il Pretore di Cuvio), curato doviziosamente da Cristiana De Falco, è dedicato alla sceneggiatura di tale opera. Piero Chiara più che collaborare allo script si "limitava" a dare delle indicazioni artistiche. Di grande impatto caustico e raffinato era l’ideazione dei titoli di testa. Chiara proponeva delle truke con dei quadri processuali di Honoré Daumier e, a seguire, l’allestimento teatrale di una commedia. Una ricercata sintesi che avrebbe sintetizzato bene Il Pretore di Cuvio. Il realismo pittorico di Daumier come rimando alla scrittura realistica ma artefatta di Chiara; il palco teatrale come richiamo all’agone delle sale dei tribunali. Inoltre la pastosa pittura di Daumier come specchio della "grana grossa" descrittiva dei personaggi, e il teatro come sbocco autoriale di Vanghetta (egli si diletta a scrivere piéces). A questi perfetti titoli di testa si aggiungeva l’allegra e smaliziata aria de Il barbiere di Siviglia. Nel finale, sempre focalizzato nel/sul teatro, la trasposizione postuma della piéce L’amore è una equazione del già deceduto Augusto Vanghetta e la promozione a protagonista della Contessa Armandina, l’unica che si ricorda di questa dimenticabile figura.
La trasposizione odierna purtroppo si distacca enormemente da quella immaginata da Piero Chiara. L’idea e la voglia di recuperare questo romanzo, praticamente quasi dimenticato, viene all’attrice Sarah Maestri, emergente starlette del cinema nostrano. Questa riscoperta e interessamento per questa opera, dettata anche dai di lei natali a Luino, merita di per sé un plauso; la riacquisizione delle proprie radici e della correlata cultura è sinonimo di un minino di attenzione culturale passata. Ma questo applauso si ferma qui, perché il seguente passaggio dalla riscoperta alla messa in immagini si risolve in un disastro filmico. Messe da parte le idee cinematografiche suggerite da Piero Chiara, la trama subisce evidenti modifiche. Rimane l’ambientazione e il periodo storico ma, oltre all’inevitabile sfoltimento di pagine, vengono modificate le carature dei personaggi. Sarah Maestri è la produttrice, quindi Evelina diviene a suo modo la protagonista del film, che acquisisce un velato sottotesto femminista. Vengono "piallate" le asperità scatologiche e il finale del libro viene gettato in mera farsa. Nel mezzo una noiosa sequela di scenette comiche che non adempiono al loro dovere comico e non riescono mai ad avere mordente descrittivo, e l’utilizzo spasmodico dell’aria di La donna è mobile dell’opera La Traviata (conferma di come il baricentro sia Evelina). A questa struttura si aggiunge l’istituzionale regia di Giulio Base, regista ormai a servizio.
Giulio Base si potrebbe definire una presenza/assenza della cinematografia italiana odierna. Presenza perché è un regista (oltre che attore belloccio) che da oltre vent’anni realizza pellicole, per il grande e il piccolo schermo; ma dall’altro è un’assenza perché le sue opere non riescono a lasciare il segno. Un regista che ha sempre proposto su carta storie interessanti, ma una volta realizzate mostrano molte velleità. Un regista che vede la sua filmografia divisa in due parti distinte: la prima fresca ed anarchica (ma fallimentare); e la seconda grigia ed "istituzionale" (ma di successo). La prima è quella di un cinema giovane e promettente. Velleitario certamente ... però giovane e con qualche strizzatina d’occhio al cinema di genere. Questa prima fase, che si svolge negli anni Novanta attraverso cinque opere, si chiude – ironicamente – con La bomba. Questa commedia, con protagonisti Alessandro Gassman e Enrico Brignani e la partecipazione di Vittorio Gassman e Shelley Winters, doveva essere l’esplosione per Giulio Base di accedere al grosso pubblico, ma beffardamente La bomba non esplode e Base rimane alla... base. Ed è con il nuovo millennio che per il regista romano si apre la seconda parte della sua carriera, quella fortunata e redditizia. Una carriera affastellata di Tv-movie e fictions. Basti citare Padre Pio: Tra cielo e terra e una quarantina di episodi di Don Matteo, per comprendere il credito che ha verso i produttori. Sia chiaro, che Giulio Base non è mai stato un regista troppo promettente, ma questa permanenza alla dipendenza della televisione e ai suoi connessi ritmi, hanno accentuato gli evidenti difetti di messa in scena che ha mostrato sin dagli esordi. Piglio ormai televisivo come conferma anche il recentissimo Mio papà. E Il Pretore soffre di "catodicità" anche per il suo demerito registico. I difetti già presenti in sceneggiatura si accentuano con una regia troppo televisiva, fatta di movimenti di macchina che tendono ad allisciare i personaggi e le situazioni, e con una inabile mancanza di dosaggio di "pathos" cinematografico. I tempi degli accadimenti sembrano già costruiti per infilarci la pubblicità. L’anarchia del Base che fu riesce a trapelare solo in tre scene: 1) Vanghetta e Landriani nel "felliniano" bordello; 2) Landriani dal medico a farsi visitare il... fringuello; 3) Landriani che spia Evelina e il sensuale e casto spogliarello. Tre scene, sottolineate volutamente dalla vezzosa rima, che per una manciata di fotogrammi sono del valido omaggio al cinema di genere italiano; in particolare al rimando sessuale.
Last but not least a questi due elementi va aggiunto il cast, che conferma ulteriormente lo stato di salute del cinema italiano. Un parterre di attori variegato ma che tende molto al raffazzonamento (oltre che ad un inequivocabile rimembranza televisiva). Francesco Pannofino, divo vocalico del cinema italiano, anche in questo caso non riesce ad imporsi come attore. Perfetto per il ruolo, in riferimento alla sua stazza, ma imperfetto per le sue nette origine romane. Sarah Maestri, a cui ridiamo il plauso per la coraggiosa riscoperta letteraria, è troppo affascinante per interpretare tale ruolo, che avrebbe richiesto un’attrice con tratti più spigolosi e meno appariscenti. Mattia Zàccaro troppo aitante, e seppur truccato da "nerd" non riesce a dare l’immagine di uno sprovveduto Landriani. A questo si aggiungono le due "stagionate" vamp del cinema sensuale italiano: Deborah Capriolio e Eliana Miglio. E mentre la brassiana Caprioglio mostra al massimo un decoltè, la Miglio concede una fugacissima apparizione del suo monte di Venere. Attori troppo vacui e poco "ruvidi" per dar corpo a certe "adipose" figure letterarie che Piero Chiara aveva tratteggiato.
Il Pretore, distribuito agli inizi di aprile del 2014, ha un supersonico passaggio nelle sale, diciamo come il Vanghetta nella provincia lombarda sotto il Ventennio. Incassi disastrosi e, al momento, non si conosce una messa in video sul palinsesto Rai. Esito disastroso inevitabile perché Il Pretore, al di là della mancata qualità artistica, è un’opera fuori tempo massimo. Anche perché nella medesima stagione cinematografica italiana la profonda provincia di oggi veniva affrontata di nuovo ma con toni molto più duri e contemporanei (Piccola patria e Il mondo fino in fondo). Ma l’errore è stato anche di marketing. Poco e male pubblicizzato, anche la slavata locandina è lontanissima da quelle che accompagnavano le pellicole “chiariane” degli anni Settanta: colori foschi e presenza di un corpo femminile che mettevano subito in rilievo i contenuti. Quindi, come seraficamente e veracemente è riportato nell’esergo di questa recensione, il risultato finale dipende dal nuovo autore/padrone.