Mio papà
Il film di Giulio Base si rivela così privo di cinema da rendere pleonastica qualsiasi inquadratura.
Lorenzo, un sommozzatore sulla trentina, si innamora di Claudia. Ben presto scoprirà che la donna ha un figlio di sei anni, Matteo. Dopo le difficoltà iniziali, Lorenzo si affezionerà al bambino, trovandosi di fronte al problema di crescere e amare un figlio che non è il suo. Basta la sinossi per comprendere l’estrema programmaticità (che fa rima con prevedibilità e, a sua volta, con esilità) di Mio papà, film di Giulio Base presentato nella sezione Alice nella città del festival del cinema di Roma. Le immagini scorrono davanti agli occhi dello spettatore in una trasparenza catodica, come se fossimo di fronte all’ennesima fiction proiettata su grande schermo. Base mira ad intelaiare un tessuto di emozioni che appaiono sempre ostentate, studiate a tavolino, musicate, abbellite e - di conseguenza - negate. Cinema che mira all’effetto, che vorrebbe essere sentimentale quando si rivela dannosamente sentimentalista. Nessuna sorpresa, nessun guizzo: del resto ci sono volute solo dodici mani per scrivere un sceneggiatura del genere, talmente fiacca da produrre effetti comici involontari. In questo Mio papà ha qualcosa di davvero miracoloso. Ogni dialogo finisce per affondare nel suo stesso patetismo, ogni cosa da non fare è fatta, ogni cosa da non dire è detta, e così via per novanta minuti. Non c’è traccia di cinema in Mio papà, nemmeno del suo scheletro teso e malandato: a chi chiedesse almeno una rovina, o la luce flebile di un momento, uno solo, in grado di esser ricordato, Base risponde con le esigenze derivative dell’industria, con i dettami risaputi del cinema per famiglie, con la debole confezione narrativa destinata a chi si è sempre accontentato. E – diciamolo – andrebbe pure bene se almeno il film possedesse un impianto tecnico di discreta fattura. Eppure Mio papà è così privo di una qualsiasi idea di messa in scena da affondare nello stantio piattume di un immagine composta di pixel e noia. Quando il film cerca di infiammarsi regala immagini da cartolina, così stellate e finte da lasciare senza fiato (l’esempio più calzante è l’inquadratura che chiude il film). Accanirsi contro il livello della recitazione sarebbe inutile e crudele, fa solo male vedere perfino Ninetto Davoli immerso in un progetto come questo. E allora cosa scrivere? Esistono delle categorie critiche che possano evitare di sparare sul morto, che possano muoversi nella direzione di un discorso costruttivo, lucido, disincantato circa il film?
Il problema è che si potrebbe sorvolare su tutto, si potrebbe passare oltre la colonna sonora onnipresente e didascalica, oltre la fotografia orfana di un direttore, ma la domanda è: dove potremmo arrivare? Nello struggente rimpianto dei romanzetti harmony? Nella glorificazione dell’umorismo involontario? Nella fenomenologia irrequieta dello scult? Sarebbe impossibile sviluppare ogni riflessione critica, perfino uscire dalla dittatura del gusto, poiché Mio papà è un’opera impresentabile da tutti i punti di vista. Un mixaggio audio che sembra fuoriuscire da un filmino amatoriale, una sequenza di morte filmata come se fosse finito il budget: poi, come d’incanto, viene in mente che il film è prodotto da RaiCinema e difficilmente potrebbe passare come operazione indipendente. Non rimane altro da fare che alzare la mani, non per snobismo critico, ma per totale, inequivocabile assenza del film stesso. La critica si fa da parte e lascia il film solo con se stesso: solo così si potrà vedere come, passo dopo passo, Mio padre proceda nella direzione di un’operazione inequivocabilmente suicida che finisce per annullarsi con i suoi stessi strumenti. Ciò che rimane è, ancora una volta, il nulla.