Il ricco, il povero e il maggiordomo
Al settimo film di finzione il trio di Mai dire Gol appare ormai stanco e privo di ispirazione
E’ pressoché dal secondo dopoguerra, dagli inizi della diffusione di massa della televisione, che la commedia cinematografica italiana intrattiene rapporti con il piccolo schermo. Un flusso a due corsie di talenti e facce e personaggi che viaggiano da un mezzo all’altro, con alterne fortune ed esiti contradditori. Molte volte la televisione è stata la palestra di una generazione, come quella sul finire degli anni Settanta capeggiata da Carlo Verdone, il cui arrivo al cinema ha sancito la fine di quel che restava della commedia all’italiana verso qualcosa di nuovo. A volte queste transizioni sono state delle iniezioni di energia e potenzialità nuove, altre dei veri e propri inaridimenti, pressoché un contagio. Non altrimenti può essere definito il propagarsi a cavallo del millennio dei grandi protagonisti del cabaret non più underground, al cui successo nel Duemila è seguito un vero e proprio assorbimento osmotico dell’estetica televisiva su quella cinematografica. Così con il cabaret è arrivata la fiction e con lei l’appiattimento dell’immagine e del potere mitopoietico della nostra commedia, ormai per lo più mera estensione di logiche televisive.
Agli albori di questo panorama iniziano la loro avventura Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti, che nel 1997 dimostrano con Tre uomini e una gamba che un cinema comico leggero ma intelligente, e soprattutto curato nella sua forma cinematografica, è possibile. L’esordio era ancora fortemente televisivo, talmente derivato da essere diviso in sketch, tuttavia da subito il trio emerso con Mai dire Gol ha dimostrato di saperlo fare, il cinema. La cosa si è resa più evidente con Così è la vita e soprattutto Chiedimi se sono felice, forse l’apice di una formula ormai scevra di bagagli televisivi e capace di affrontare temi importanti senza alcun complesso di inferiorità. Nel tempo tuttavia, complice probabilmente la fuoriuscita del capace Massimo Venier in cabina di regia, il cinema del trio perde precipitosamente forza e vitalità. Prima il mezzo passo falso di Tu la conosci Claudia? e poi i disastrosi Il cosmo sul comò e La banda dei Babbi Natale rendono evidente la criticità della situazione. Alla fiacchezza delle battute e dei personaggi segue soprattutto l’abbandono di storie più semplici e intime, a fronte di soluzioni sopra le righe che richiamano il peggio di quella televisione apparentemente superata. A questo meccanismo di ritorno non fa eccezione purtroppo questo Il ricco, il povero e il maggiordomo, sorta di favola sulla redenzione e la bontà dei sentimenti raccontata però senza alcuna ispirazione.
Storia di incastri che vede opporsi e poi collaborare un broker finanziario sul lastrico (Giacomo), il suo maggiordomo amante delle arti marziali (Giovanni) e un goffo venditore abusivo con il sogno di aprire una sua bancarella (Aldo), il settimo film di fiction del trio è una raccolta inerziale di sketch e battute accomunate da una profonda stanchezza. Rispetto ai loro film migliori manca la volontà e forse la capacità di tratteggiare una storia e dei personaggi sotto le righe ma buffi, simpatici, piacevoli, preferendovi invece il ritorno alla macchietta, priva però di ogni forza e originalità. Il ricco, il povero e il maggiordomo non diverte quasi mai, affossato anche da tempi comici affrettati e situazioni banali, ma soprattutto non ambisce a raccontarci nulla di interessante, accontentandosi di girare attorno a tre banali storyline tenute assieme da un piatto buonismo e da un vago bisogno di redenzione. Tutti e tre i personaggi hanno a loro modo bisogno di afferrare le redini della propria vita e di affrontare svolte che richiedono coraggio, tuttavia la dimensione favolistica diventa la scusa del film per non dare a tali emozioni alcuno spessore. Non ci resta nulla, nel cuore e negli occhi, di questo Il ricco, il povero e il maggiordomo, le immagini e le risate migliori del trio sembrano ormai dietro di noi.