Il ritorno di Cagliostro
Un ritorno al passato mitico di un’isola, e di una penisola, dove la Trinacria Cinematografica è orpello e sberleffo all’attuale situazione cinematografica italiana
Come non voler bene ad una cinematografia che è dapprima consapevole scelta d’intenti, incondizionata e genuina? I personaggi di Ciprì e Maresco sembrano provenire dal pleistocene, da una terra, la Sicilia, che confina con il quaternario, come singhiozzi di un’umanità in degrado, fiori nascenti dal grado zero della significazione, sono primordiali freak di pietas rigonfi, sono loro, da sempre gli altri, gli esclusi dalla visione linda di un’Italia da salotto. Lontani dalla televisione della famiglia ideale, distanti dalle trasmissioni artificiali di quiz a premi (o comprimarie e successive apparizioni di uno populismo pre-tg bonolisiano), sono i tessuti cancerogeni e corrosivi di una terza serata che mostra all’italiano la virulenta vescica celata sotto una pelle splendida. Il duo registico muove la stilografica dove la pagina non arriva, sposta l’occhio dove d’istinto verrebbe ritratto, ode rumori intestinali che il naso non vorrebbe fiutare, nel voltare l’immagine scoprono il parossismo umano, nel voltare l’umano scoprono il suo lato disumano: nel voltare la carta mostrano la merda (d’autore!).
Sono personaggi sacri che non hanno nulla da spartire con la cristianità nonostante vivano in un Paese che, tra il lusco e il brusco, giace nella penombra della cristianità. Fuoriusciti dalle macerie di una cronistoria vagano per il dopo tutto, in spazi di nulla petano, in località sconfitte ruttano, in perenne involuzione rispetto all’uomo rinascimentale, lontani dal lume della conoscenza e dentro le volte della post storicità. Giuseppe Paviglianiti, Francesco Tirone, Rocco Cane e gli altri sono davvero cose mai viste: inconsapevoli marionette di un ineluttabile destino. Alla lista dei personaggi di Cinico Tv fanno parte anche i personaggi che vengono ritratti nei film successivi a Totò che visse due volte, recuperati in scrematura dal fondo pozzo della sedimentazione culturale, i registi scansano a larghe bracciate terra e feci per trovare l’oro (e loro). Sotto a questa accozzaglia scomposta che compone il malcreato e l’informe trovano il genio dimenticato, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, e Maresco spingendosi ancora più a fondo rivela l’anima jazz di Tony Scott, e da questa fanghiglia scossa ecco apparire un viso, anzi solo un profilo, immagine appannata di venti anni di potere e televisione, l’immagine frontale e chiara degli italiani: Bellusconi.
Da questo calderone costipato di mito e mistica nasce anche il Conte di Cagliostro, figura storica di alchimista ed esoterista palermitano, personaggio-esca per tessere un discorso metacinematografico sulla Trinacria Cinematografica, produzione del dopo guerra siciliano fallita proprio volendo fare un film sul famoso conte. Il duo registico riesce nell’ardua impresa di creare un mokumentary dove la produzione dei fratelli La Marca diviene simbolo di un’isola, la Sicilia, e di una nazione, l’Italia, che fatica a muoversi alla luce del sole, in perenne (dis)accordo con poteri fuligginosi e foschi, traversi alla legittimità nazionale. Una storia che torna a raccontare un fallimento glorioso, allo stesso tempo ironico e grottesco, un film che si accompagna degli stessi personaggi che hanno dato vita alla loro precedente tesi cinematografica; una messa in scena che fa del bianco e nero la cifra stilistica di una cinica menzogna e di una narrazione che si distacca dal reale quanto un riverbero donchisciottesco. Il Conte di Cagliostro, nel film interpretato dall’attore americano Robert Englund, diviene esso stesso contraltare professionale di una disperazione e di un’amatorialità catastrofica che sfiora la demenzialità, lasciando presagire una critica smussata verso il gusto, l’interesse e la scelta imprenditoriale bacata che sostiene l’attuale mondo cinematografico italiano. Non è solo un discorso di censura, non è solo un cuneo sospinto in fondo nell’interstizio del taciuto per aprire il sarcofago della libertà di espressione, Il ritorno di Cagliostro è volutamente il film più intelligibile e digeribile di Ciprì e Maresco, è un quadro parlante utile ad aprire gli orizzonti della visione e ad accettare in sé più pubblico possibile così da dimostrare, perlopiù a tutti ma in definitiva sempre a pochi, che dietro al cinema non c’è più magia ma rovina, sconfitta, depravazione, imbecillità, a dimostrazione che quest’oggetto che chiamiamo cinema è bersaglio di mire interessate, e poco raccomandabili, che si intersecano sotterranee nei vari salotti dei nostri affrescati palazzi borghesi.