Il silenzio di Pelesjan
Più che un film su Artavazd Pelesjan, quello di Pietro Marcello è un film a partire da Artavazd Pelesjan.
Se è mai esistito un cinema precedente alla Torre di Babele, bisogna ricercarlo all’interno delle tre ore scarse in cui è racchiusa tutta la filmografia di Artavazd Pelesjan. Cineasta invisibile per eccellenza, regista armeno inventore di quel montaggio a distanza che ha disseminato eco nei luoghi filmici più impensabili, Pelesjan è il regista sublime di autentici film-sensazione, il poeta antigravitazionale del notre siècle (quello novecentesco).
Il suo è un cinema mai visto (o visto troppo poco) che si rivela a noi come un ufo, una capsula sopraggiunta dal futuro, una sonda lanciata col peso della macchina a mano. Una macchina che trema, esita, tentenna come un cuore che vede e sente il mondo, le sue gioie e i suoi affanni.
Pelesjan è uno di quei registi onnivori che ritornano sempre alle forme essenziali della vita (la splendida pioggia di luce di Life, penultima opera di una carriera composta solo di doni incondizionati). Eppure oggi Artavazd è un cineasta disperso, un guerriero solitario costretto nel limbo dei dimenticati, lontano da tutto e tutti, ridotto a silenzio quando il suo cinema è stato tutto fuorché silenzioso: il suono, nei suoi lavori, comunica più di ogni parola, di qui tutta l’ambigua titolazione del film di Pietro Marcello.
Il Silenzio di Pelesjan è una non-parola, un ritorno alle basi universali della comunicazione, uno sguardo anteriore al verbo stesso. Un silenzio che, in fondo, è tutto il suo contrario. Il film di Pietro Marcello appare fin da subito come un oggetto filmico affascinante e misterioso, un’opera trasversale che sfida i limiti del linguaggio per costruire un dialogo, un punto d’incontro e scontro all’interno di quella piattaforma cinematografica che è poi il film stesso. Marcello, il cineasta più squisitamente markeriano del nostro cinema, non insegue ostinatamente l’omaggio, seppur necessario, ma realizza un film che fa di Pelesjan un mirabile punto di partenza.
Come confrontarsi con l’opera di Pelesjan? Come potersi riappropriare del film? Come poter trovare una propria strada, un proprio percorso libero dai maestri? Come riscoprire una verginità nella visione, un’autonomia dello sguardo?
Pelesjan è una sorta di medium, un varco, una figura che può disvelarsi solo mentre si nasconde, un soggetto che non si dà immediatamente se non nella sua stessa negazione. Il silenzio di Pelesjan è d’altronde un film costruito in-assenza del suo oggetto, un’assenza da cui partire per poter edificare una propria costellazione cinematografica, un proprio, intimissimo itinerario di visione.
I segni del tempo appaiono impressi su un volto antico e inaccessibile, così recondito da implicare un’intera gamma di possibilità cinematografiche. Pelesjan diviene il punto zero di un’indagine quasi diaristica, di un’operazione che ha a che fare con l’uomo e con il cinema, con lo sguardo e con la morale, con la Storia dell’arte e la Storia degli uomini: quant’è commovente l’aderenza pelesjaniana a quei volti sottratti alla Storia, a quelle comparse che formano un intero, vivissimo casellario umano? E quant’è toccante la rielaborazione che Marcello fa di quei volti?
Il movimento, certo, è quello di costruire qualcosa a partire da Pelesjan, di realizzare un film che aderisca al suo linguaggio, alle sue sfere semantiche, al suo stesso modo di vedere e concepire il mondo. Eppure emerge subito un contromovimento: l’esigenza di Pietro Marcello di varcare i limiti di quel linguaggio, di usare la sua stessa voice over per scrivere una storia in incontrovertibile mancanza del suo centro. Pelesjan diviene una figura leggendaria, il grande vecchio che visita le tombe degli antichi maestri, il naufrago che non ha più voce nel mondo ma che, contraddittoriamente, è immerso in quel mondo (lo sguardo assente, obnubilato, mentre guarda la televisione sul divano di casa).
Le immagini di Pelesjan tornano sempre, si sgretolano fino a farsi immateriali, persistono al di là di qualsiasi grammatica ideologica e narrativa: sogni latenti, ascese e cadute, ritorni alla vita e al gregge.
Pietro Marcello cattura l’immagine di Pelesjan, ne fa il corpo cinematografico con cui scrivere la sua storia: emerge allora un intero cosmo di immagini, che mischiano alto e basso, sacro e profano, cielo e terra, ascesa e caduta, come a restituire la forza di un’immagine pensante. Da un certo punto di vista Marcello ha bisogno di Pelesjan per poter costruire una sua personalissima storia dell’occhio e della visione (in questo senso è un film quasi autobiografico, un film sull’etica dello sguardo, sulla morale della messa in scena).
E poi, nel finale, trova un punto d’incontro impossibile, reinventa a suo modo il film incompiuto di Pelesjan, quell’Homo Sapiens che avrebbe dovuto raccontare la grande storia dell’arte e dello sguardo. In una sovrimpressione che è un lungo piano sequenza, lo sguardo di Pelesjan incrocia finalmente quello di Marcello. I livelli dell’immagine di fondono: le luci della città (riprese in un camera-car notturno) si sovrappongo alla carrellata della meraviglie artistiche della nostra storia. In questo magma incandescente ribollono gli oggetti artistici di ogni epoca (fino ai primordi rupestri di Lascaux) mentre tempo, spazio, cinema stesso s’infrangono senza alcuna soluzione di continuità. Tutto implode nella massa informe di un piano-sequenza dove riscoprire sempre chi siamo (le nostre stesse basi astratte, la nostra stessa immaterialità). In questa informità, in questa fluidità, si torna a vedere. Sembra quasi la risposta personalissima di Marcello alla celebre frase di Pelesjan: “Una delle caratteristiche del mio lavoro è di abolire il tempo, di lottare contro il tempo. In un punto del montaggio a distanza si può far entrare tutto l’universo.”