La bocca del lupo
Dal verismo di Zena alla storia genovese di un amore puro vissuto nella "terra dei vinti"
«...dei lupi non ne mancano, saltano fuori da tutte le parti colla bocca spalancata; se non si sta bene attenti, la ragazza finiscono per mangiarsela, e allora si piange, ma a che cosa serve il pianto?»
Remigio Zena – La bocca del lupo
L’attraversamento ed il passaggio. Lo sguardo posato sulle scie che la vita spettralmente impone sull’immagine dove ai margini cadono pezzi di esistenze, Pietro Marcello le raccoglie definendole in cinema, ed usando la grammatica del montaggio le racconta in quanto storie da narrare. Come nella prima immagine, l’inquadratura divisa simmetricamente, da una parte il mare, il perpetuo scorrere, dall’altra il muro, la staticità e l’occlusione dello sguardo, mentre una nave fuoriesce dalla stentorea fissità e l’attraversa: sull’orizzonte scivola liberando il suo racconto.
Genova, porto di anime e merci, di baratti e traffici, una città che s’inchina al mare, che scende e sale, un luogo di attraversamenti, partenze e lasciti. Genova. Luoghi e spazi sorpassati da gambe e barche che lasciano archeologiche speranze, racconti di marinai in grotte senza tempo. Gli abitanti delle caverne hanno più racconti di noi, gli sanguinano i sogni, con lampi negli orecchi destri e paradisi negli altri. Gaspare Invrea, meglio conosciuto come Remigio Zena nel suo romanzo La bocca del lupo, dall’alto del suo titolo da marchese, s’immerge nella Genova più povera, nella città dei vinti, tra le fauci fameliche di lupi pronti ad azzannare chi resta indietro nella lotta basica alla sopravvivenza. Attraverso il medesimo piglio verso gli ultimi, Marcello racconta la storia di Vincenzo Motta detto Enzo e della sua relazione con il transessuale Mary Monaco. Un viso spigoloso, tagliato nella pietra, rugoso, consumato, cinematografico, ma di un cinema passato, neorealista o western; Enzo nato in Sicilia e cresciuto a piedi scalzi tra i vicoli genovesi, dopo mezza vita passata in diversi carceri e dopo aver scontato varie condanne, torna da Mary, conosciuta dietro le sbarre, apprezzata ed amata nell’oscurità e nel silenzio di una cella, difesa, attesa, lei ex eroinomane lui uomo dolce e rude, con quelle sue mani antiche che quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte.
Lo sfondo è Genova, strade vissute da prostitute e transessuali, città gonfia di baratti e venditori, chi elemosina desideri e chi transita portandosi dietro, sulle spalle, un passato pesante ed una storia da raccontare. Marcello utilizza materiale eterogeneo con sapienza e ritmo proprio di chi scrive i propri film attraverso il montaggio, durante le riprese, mentre il film ancora si sta facendo. Ed ecco che la storia di Enzo si tinge di noir, intervalli di racconto e lettere dal carcere si uniscono a materiale recuperato, come quelle esistenze sempre ai margini, figure che si imprimono nelle penombre, che rifraggono sui muri la loro densa oscurità. Un’amore che supera il confinamento, attese e bar notturni, prima ancora di manifestarsi frontalmente all’occhio delle macchina da presa, enunciandosi come materiale documentale, fulcro dell’operazione narrativa. Le caratteristiche del cinema a soggetto si confondono con lo spirito documentaristico, tutto diventa altro, storia individuale certo, ma densa di chiaroscuri narrativi, sfuggenti attimi di verismo cinematografico attraverso particellari immagini recuperate di finzione, il documentario sorpassa il terreno del documento ed inizia a raccontare una storia impressa anche nel materiale extradiegetico. L’inserto che racconta il girato ed il girato che utilizza l’inserto per raccontarsi. Non sorprende come Marcello abbia voluto raccontare il regista armeno Pelesjan, fautore della teoria del montaggio a distanza, della sua capacità di far risuonare nell’emotività spettatoriale degli intervalli di girato non contiguo, di come la distanza che separa l’inquadratura si riunisce e rimbomba nella ciclicità del flusso audiovisivo. Tornando più forte che mai, dal campo totale al primo piano, senza intervalli medi, a distanza contrappuntistica, ciclica come un’emozione slegata, non lineare, ritmica e sinfonica. Il cinema in Marcello si manifesta nella sua cadenza, attraverso la poesia in over che denuda le anime mostrate, finché non cede alla realtà e regala (e si regala) ai loro protagonisti una frontalità senza stacchi, pura confessione e dichiarazione umana di conforto ed amore, uno nell’altro, uno come parte dell’altro, indissociabile ed indissolubile, momento in cui il cinema si denuda, e smessa la narrazione, la rappresentazione, ha iniziato ad ascoltare la vita.