Inseguire il vento
Le conseguenze estetiche della morte osservate attraverso lo sguardo di Ticozzi
Il passaggio da uno stato all’altro, da materia a materia, come un liquido che diventa gassoso, come un corpo vivo che diventa un involucro morto. Karine è una donna francese, una delle maggiori esperte di tanatoprassi e tanatoestetica, legge Boudelaire, vive in un piano alto, dove dal basso si confonde la vita diurna del mercato e notturna dei locali, il richiamo alla vita che gli cadenza la giornata. La mattina esce e dirigendosi alla mortuaria inizia il suo lavoro sulle salme. Delle tecniche utili non per riportare in vita, per dimostrare i segni della vita in un corpo morto, ma per mascherare gli indizi del decesso, o quantomeno per rendere più fallibile la morte stessa agli occhi dei famigliari. Cosa rimane di corpo quando le sue funzioni vitali cessano? Karine ci introduce in un mondo liminare, un mestiere che lavora sul confine tra la materia e l’anima, tra la biologia e la metafisica. Un mestiere che non può non agire anche sulla psicologia dell’operatore, su quella parte trascendente, notturna, propria forse solo dei vivi.
Lo sguardo di Filippo Ticozzi pedina la protagonista, seguendola anche oltre al suo confine lavorativo presentandoci una donna che vive il proprio mestiere. Un mestiere che ha a che fare a volte con la ricostruzione del cadavere, con il make-up, un mestiere che necessita una prontezza nella vittoria quotidiana sulle conseguenze fisiche del decesso. Per Karine un corpo quando muore non smette di possedere al suo interno la vita, la decomposizione intesa come inizio di un nuovo ecosistema, un habitat riproduttivo dentro ad una carogna, finché solo con le ossa si cessa davvero di vivere e far vivere. La camminata finale dentro all’ossario è una passeggiata nella morte definitiva, dove Karine ha smesso di possedere la forza d’azione sulla morte. Ticozzi continua a lavorare sul piano inclinato confinante con la possibilità di vedere e l’impossibilità di guardare, in bilico su quel cuneo con due piani scoscesi, in equilibrio tra l’immagine e la sua narrazione, tra la rappresentazione e il grado zero dell’immagine. Ticozzi non teme nel suo cinema la mancanza, la morte intesa come cessazione della dialettica tra filmabile ed assenza, perchè riconosce in essa stessa uno spazio vuoto che è già esso stesso una parte integrante del veduto. L’infilmabile diventa per Ticozzi una materia da esplorare omettendo la necessità di vedere. Le infinite possibilità di una morte diventano così delle certezze che esistono in quanto fuoricampo necessario di una visione che si esclude. Karine è il Caronte femminile che accompagna le salme davanti agli occhi degli affetti, per ingannare l’inizio del transito, della decomposizione, sulle cornee di chi ancora vive.