Moo Ya
Fantasmi nelle terre dei fantasmi
Un viaggio nel dolore di una Nazione, l’Uganda, tra paesaggi, volti, racconti. Moo-ya del regista pavese Filippo Ticozzi è un documentario di ricerca sul significato delle immagini, sullo sguardo che cede al bisogno di guardare, viaggio scopico che si rifugia nella lattiginosa oscurità della cecità. Il dolore di una guerra civile che diventa narrazione delle barbarie commesse. Parole che si manifestano in fantasmatici orrori, che il regista non ci manifesta come immagini oggettive, repertoriali, ma che sentendoli narrare dai protagonisti riusciamo a visualizzare nella nostra soggettività, come richiami di un dolore di cui non siamo stati testimoni, evocandocele come richiami sonori e riempitivi di un territorio evocativo. Questi diventano nitidi ricordi di una popolazione che ha visto la morte con i propri occhi e che ora ha paura di riaprirli. Il racconto di Ticozzi riesce a distanziare lo sguardo dalla violenza, lasciando i soggetti in campi lunghi come voci di un territorio, voci di una popolazione che ha visto l’inferno sulla terra. Lo sguardo arretra e lascia alla voce la necessità di ricordare, arretra distanziandosi dall’atto di uccidere – che sia un pollo o che sia un uomo – fuggendo dal dettaglio, indietreggiando nel riparo di un campo lungo. Paura, orrore, stupro, sangue, corpi sparsi, morenti, e gli occhi che non sanno più vedere. Occhi di un cieco che suona le sue canzoni, che racconta per suoni le sue emozioni. Occhi che non sanno vedere, occhi per corpi in viaggio, in eterno movimento, una presenza che è testimone cieco di un procedere in avanti, che calpesta una terra rossa, sanguigna. Occhi di un’intera Nazione che Ticozzi riesce ad accompagnare, riuscendo magistralmente a rianimare, per portare la verità lì dove questa si rifiuta, per pudore e per dolore, di riapparire. La verità di un territorio stupendo che ha in terra le macchie rosse del sangue versato. Fantasmi che vagano sulla terra. Fantasmi che solo un cieco riesce ancora a sentire vicini. Fantasmi che hanno perso tutto, parenti e amici, che piangono quando ricordano, che hanno una voce strozzata nel riconoscersi come i salvati di un massacro. Ticozzi ci porta in quella cecità, in ciò che rimane dell’umanità e della cultura dopo l’avvento della morte. Come un’estensione sensoriale, il cinema di Ticozzi ridà la vista, ode senza che la violenza prenda il sopravvento sulla realtà, guarda senza che il sangue infetti lo sguardo. Nella terra dei fantasmi non possiamo sorprenderci se ad apparire è una giraffa, che taglia l’immagine percorrendola orizzontalmente come una lama di surreale verità. La tragedia ricostruita mentalmente lascia spazio a visioni di di altri fantasmi, Ticozzi prende la materia e la trasforma in verità onirica, la manifesta attraverso la parola che punge e che reclama la sua appartenenza ad un corpo che si è reso trasparente, che è esistito e che continua ad aggirarsi nelle immagini, ma che noi non riusciamo a vedere nonostante, limpidamente, si manifesta in un suono, in una voce in grado di visualizzarlo. Immaginiamo con gli occhi della mente, e con la voce del passato evocato. Moo Ya, è un documentario evocativo come il nome divino da cui trae il titolo. Un nome che non ha un corpo specifico, che è suono e immagine divina, che rifugge le traduzioni divenendo fonema di un mondo che ci viene traslitterato in un altro linguaggio, quello dei sensi e della memoria, che ricostruisce lo spazio, il tempo, le barbarie, i corpi uccisi ed i dolori che sono il corpo trasparente del fantasma a cui appartengono.