Prendete l’insipida commedia di successo Big Daddy,shakeratela ben bene con Kramer vs. Kramer, speziatela con una posticcia salsa messicana e chiudete il tutto con un finale straziante e retorico. Il risultato è Instructions not included, opera prima dell’attore e star televisiva messicana Eugenio Derbez, in cui il classico tema della paternità non voluta si condensa con quello più ampio del rapporto tra padre e figlio. Concretizzazione di un progetto maturato nell’arco degli ultimi dodici anni, il lungometraggio si culla tra gli alti e bassi di una scrittura spesso eccessivamente meccanica, votata alla ricerca sperticata del tocco anticonvenzionale e che, nel suo costruirsi meccanicamente, non può che defluire in un testo dai tratti eccessivamente forzati.
Il percorso del protagonista Valentin, interpretato dallo stesso Derbez, alla prese con le gioie e i dolori della nuova vita con sua figlia Maggie (Loreto Peralta), è intervallato di tanto in tanto da inserti attraverso i quali emerge un passato non ancora elaborato: quello di Valentin bambino, alle prese con un padre bonariamente irruento e competitivo. E sono proprio queste tracce di passato a dare un minimo di profondità, e a risollevare in parte una storia che altrimenti sarebbe risultata difficilmente digeribile. L’impressione è che la scrittura di tali sequenze sia maggiormente ispirata rispetto a quelle in cui viene affrontata l’improvvisa paternità, ovvero l’intero film, e che anche a livello registico questo maggiore estro abbia trovato risoluzione in una messa in scena più riuscita, dalla maggiore personalità e forte di soluzioni stilistiche interessanti, per quanto mutuate in larga parte dal lessico andersoniano e burtoniano. Sembra quasi che in Derbez l’impellenza creativa provenga più dalla sua dimensione filiale che da quella paterna.
Per il resto pochi guizzi. La storia di Valentin, don giovanni da strapazzo che si vede recapitare alla porta una bambina, sua figlia, avuta da una fugace notte d’amore con Julie (Jessica Lindsay). La fuga della madre della piccola e la partenza di padre e figlia dal Messico alla volta di Los Angeles, dove lavora Julie, alla ricerca della donna. Un viaggio che non avrà successo, ma segnerà l’ingresso di Valentin nel mondo del cinema come stuntman e il trasferimento a Los Angeles assieme alla piccola Maggie. Ellissi di sette anni e il legame tra Valentin e la bambina è sempre più stretto, lei diventa l’agente di lui, lo accompagna sui set, gli dà la forza per affrontare le giornate. Poi, dopo tanti anni lontana dalla figlia, la madre pentita torna reclamando la custodia della piccola Maggie, divenuta ormai il fulcro dell’esistenza di Valentin. In parallelo riscopriamo l’infanzia dell’uomo, costretto dal padre ad affrontare prematuramente le proprie paure attraverso sfide che inevitabilmente da percorsi di esorcizzazione si tramuteranno in nevrosi nel Valentin adulto, e che si troverà costretto ad affrontare quando il suo ruolo tramuterà in Valentin padre. L’autore sembra riflettere sull’esistenza come susseguirsi di ruoli da incarnare, da quello di figlio a quello di padre, e su quanto il dissolvimento di una o più maschere indossate lasci l’individuo solo con se stesso, “de-ruolizzato”, di nuovo in equilibrio precario. I mezzi attraverso i quali Derbez porta avanti questa riflessione appaiono però insipidi, convenzionali e meccanici, tutto appare estremamente costruito a tavolino, con eccessivo zelo nel tentativo di strappare l’emozione facile allo spettatore. Per raggiungere tale scopo il regista ha costruito una commedia dai risvolti melodrammatici senza troppe pretese, se non quella di realizzare un prodotto ben impacchettato sotto l’effige del made in Mexico facilmente esportabile fuori dai confini nazionali. E dal momento che negli States il film ha scalzato dal trono del record di incassi per un film straniero Il labirinto del Fauno di Guillermo del Toro, possiamo serenamente affermare che l’obiettivo precipuo del progetto derbeziano è stato raggiunto.