Rosy Fingered Dawn, realizzato nel 2002 e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori, è l’unico documentario italiano su Terrence Malick, regista tra i più grandi del cinema americano contemporaneo. Oltre che per la potenza visiva e la pregnanza di significato dei suoi film, Malick tuttavia è noto anche per la sua estrema timidezza e la sua ritrosia ad apparire in pubblico e a rilasciare interviste.
Come nasce e come si sviluppa l’idea di girare questo film, per il quale, tra l’altro, avete curato la regia in quattro, insieme a Gerardo Panichi e Luciano Barcaroli?
Daniele Villa: L’idea di realizzare un documentario su Terrence Malick è stata una naturale evoluzione di progetto iniziato nel 1996 da me, Carlo Hintermann e Luciano Barcaroli che consisteva nel cercare di fare critica cinematografica nel modo più diretto e passionale e per noi meno autoreferenziale possibile, seguendo la lezione dei «Cahiers du Cinéma» al tempo della Nuovelle Vague. Eravamo sulla ventina, affamati di cinema, e il modo più sincero di soddisfare questa esigenza era per noi quello di cercare di dialogare direttamente con i cineasti che amavamo. Questo progetto iniziò con il progetto di un cineclub in una sala parrocchiale nel quartiere romano del Trullo, il Cine-Trullo, che poi divenne Citrullo e diede il nome al nostro gruppo. Il cineclub non si realizzò mai, non per nostra volontà, nonostante fossimo riusciti a ottenere che Jean-Luc Godard accettasse di venire a presenziare ad una sua retrospettiva da noi organizzata e poi cancellata. Non ci scoraggiammo, e come Citrullo realizzammo una lunghissima intervista con Otar Ioseliani – incontrarlo ci aprì quasi in modo violento una nuova visione del cinema, e della vita. L’intervista divenne un libro per la Ubulibri, grazie alla lungimiranza di Franco Quadri e il sostegno di Enrico Ghezzi, due persone che ci giudicarono solo per la qualità del lavoro (non eravamo ancora laureati) e a cui saremo eternamente grati. In seguito incontrammo Takeshi Kitano e Aki Kaurismaki: dal primo incontro nacque un libro con Ubulibri, dal secondo una grande simpatia reciproca con il regista finlandese e molte situazioni surreali.
Nel 2000 poi decidemmo di passare dall’altra parte della barricata e fondare una casa di produzione, la Citrullo International. Carlo aveva già realizzato alcuni cortometraggi e frequentato una scuola di cinema a New York, dove aveva conosciuto Gerardo Panichi, che aveva poi collaborato alla realizzazione de I cento passi di Marco Tullio Giordana, e che immediatamente si unì al gruppo. Rosy Fingered Dawn fu la naturale continuazione del nostro percorso, e un atto di amore per un regista che con La sottile linea rossa ci aveva aperto nuovi orizzonti.
Nel film compaiono molti attori e collaboratori di Terrence Malick: Martin Sheen, Sissy Spacek, Sean Penn e Jim Caviezel, accanto a scenografi, montatori e musicisti, tra cui Ennio Morricone, autore delle musiche del secondo film di Malick, Days of Heaven. Insieme a loro, viene intervistato il regista Arthur Penn – l’autore di Gangster Story – e anche John Turturro fa un breve intervento davanti alla macchina da presa. È stato difficile orchestrare le numerose interviste che compongono il documentario, contattare e raggiungere tutte le varie persone coinvolte?
DV: Nel rapportarci con Malick ci comportammo con il nostro consueto approccio che era, ed è, quello di accostarci con umiltà e sincera passione al suo cinema e rispettare la natura dell’oggetto della nostra ricerca. Malick è notoriamente una persona riservata e noi decidemmo dall’inizio di non lottare per intervistarlo a tutti i costi, pur volendo avvicinarci al suo cinema “dall’interno”. Gli manifestammo questa nostra volontà e ci conquistammo in questo modo il suo rispetto. Ci incontrammo poi un giorno a Milano, dove era per una proiezione della versione restaurata di Badlands organizzata da Ghezzi, e parlammo molto, non solo di cinema. Fu gentilissimo – fin dal primo incontro si ricordava i nomi di tutti noi quattro – e accettò che girassimo un documentario su di lui. La sua adesione ci permise di intervistare alcuni dei suoi più stretti collaboratori e persone come Arthur Penn, che l’avevano aiutato e promosso fin dagli inizi del suo lavoro come regista. Si era insomma creato un clima di fiducia, che abbiamo cercato di onorare durante le riprese del film e nel nostro seguente rapporto con lui.
La Citrullo International, la vostra casa di produzione, si occupa di cinema (documentari, lungometraggi, cortometraggi, film d’animazione) ma anche di letteratura cinematografica. È in preparazione, tra le altre cose, un libro su Terrence Malick. Di che cosa si tratta e quando verrà pubblicato?
D.V.: Il libro, un interminabile progetto iniziato dieci anni fa a partire dalla trentina di interviste realizzate con il documentario, è una sorta di documentario per iscritto su Malick. È costituito da circa un’ottantina di interviste ai suoi collaboratori, da Badlands a The Tree of Life, montate in forma dialogica. Ieri abbiamo realizzato l’ultima intervista, a Mark Yoshikawa, uno dei montatori di The Tree of Life, e ci apprestiamo a montare l’ultimo capitolo. Penso che finalmente in autunno riusciremo a pubblicare il libro, per i tipi della Faber and Faber, la prestigiosa casa editrice inglese. Ne siamo molto contenti anche perché, oltre a chiudere un ciclo lunghissimo, la Faber è la casa editrice che ha pubblicato i libri-intervista di cinema con cui siamo cresciuti e ci onora poter far parte della loro collana.
Tra gli ultimi lavori da voi prodotti, troviamo il documentario The Dark Side of The Sun, per la regia di Carlo Hintermann, che racconta di un campo estivo americano per bambini affetti da una rara patologia che impedisce loro di esporsi alla luce del sole. Il film affronta un tema piuttosto delicato, miscelando animazione e documentario, fantasia e realtà. Come avete sviluppato questo progetto?
Carlo Hintermann: Il progetto ha avuto una lunga gestazione, abbiamo impiegato diversi anni per chiudere il piano finanziario ma anche per trovare il giusto approccio con una realtà complessa che meritava tutta la nostra attenzione. Il risultato di questo percorso è stato quello di instaurare un rapporto molto profondo con i fondatori di Camp Sundown e tutti gli ospiti del campo. Più che solamente un film è stato un viaggio che abbiamo fatto insieme a loro cercando di portare sullo schermo quello che ci hanno lasciato in termini umani soprattutto. Un vero percorso di crescita, nel quale la parte animata ha rappresentato la concretizzazione delle paure e dei desideri dei bambini protagonisti, il “documentario” della loro dimensione onirica. Proprio per l’importanza di questa esperienza abbiamo deciso di continuare a collaborare con Camp Sundown. Daniele Villa infatti tornerà al campo questa estate per portare dei workshop per i bambini grazie al sostegno delle associazioni Mus-e Italia e Mus-e Roma.
Accanto a The Dark Side of The Sun, tra le vostre più recenti produzioni, figura un progetto completamente diverso: H2O, composizione ibrida e sperimentale che coinvolge musicisti, designer, programmatori e videomaker. Come nasce questo progetto e come potreste descriverlo?
C.H.: H2O nasce da una proposta di un gruppo di improvvisatori Taxonomy che ci ha chiesto di unire le forze insieme a Lorenzo Ceccotti e Gianluca Abbate, entrambi animatori e grafici, per mettere in piedi un progetto che unisse animazione e improvvisazione musicale. A loro si è aggiunto Mauro Staci che ha realizzato un software per gestire l’animazione dal vivo creando un percorso narrativo insieme all’improvvisazione musicale. Ne è nato un progetto molto stimolante che ha circolato molto sia nella sua forma di performance dal vivo che nella sua forma di corto di animazione. Una perlustrazione di un immaginario mondo acquatico popolato da organismi primordiali, un gabinetto scientifico che ha significato per noi un’occasione importante per sperimentare e portare avanti la produzione di animazione, che ci ha sempre molto interessato.
Quali saranno le vostre prossime produzioni cinematografiche?
CH: In questo momento stiamo producendo un documentario su tangentopoli di Gerardo Panichi, poi insieme a Rita Rusic stiamo chiudendo il piano finanziario di un film di finzione cercando di mettere in piedi una coproduzione internazionale di ampio respiro. A questo progetto si unisce una serie che abbiamo scritto per la televisione 3d che è in fase di sviluppo. Il nostro intento è quello di continuare nel solco della nostra partecipazione a The Tree of Life di Terrence Malick, per il quale abbiamo prodotto l’unità italiana e girato delle sequenze, cercando coproduttori internazionali e lavorando con le persone che stimiamo.