La vita nascosta - Hidden Life
Con il racconto della vita vera di Franz Jägerstätter, il cinema di Terrence Malick ritrova tutta la sua solidità, l’incisività dei suoi imperativi, la pregnanza del suo discorso esistenziale e filosofico
Già nel magnifico La sottile linea rossa l’evento bellico si rivelava, attraverso lo sguardo estatico di Terrence Malick, come un fatto esistenziale e morale prima ancora che storico e sociale. La voce fuori campo, marchio di fabbrica di tutto il cinema del regista americano, si faceva luogo e modalità espressiva di un incessante e sofferto interrogarsi sulla natura, e sulle ragioni – se ne esistono - del male in senso lato. Del tutto coerente allora la scelta di raccontare, con un approccio non dissimile e a più di venti anni di distanza, la vita e il lacerante dilemma interiore di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che negli anni Quaranta preferì morire piuttosto che giurare fedeltà al Führer. Il protagonista de La vita nascosta, nella sua irriducibilità, dietro alle sbarre della prigione in cui gli aguzzini nazisti lo tormentano e lo umiliano è riconciliato con il mondo perché sa di essere libero, in quanto quella che attua è, a tutti gli effetti, una scelta. Non distante, peraltro, da quella del giovane Witt che ne La sottile linea rossa, in un certo senso, preferisce sacrificarsi piuttosto che corrompersi definitivamente.
Del resto Malick è sempre stato un autore che in ogni particolare cerca, e trova, l’universale, che usa la Storia, o le storie, per farne emblema e parabola; nei suoi territori d’indagine esistono quasi solo assoluti (la vita, la nascita, l’amore, la fede, la sofferenza) restituiti allo spettatore con un linguaggio seducente che si è fatto, nel corso degli anni, sempre più rarefatto, disorientante, disgregato e immersivo. La vita nascosta ribadisce fermamente la fedeltà a certi stilemi espressivi ben noti - le fluide carrellate in avanti che sembrano voler “disvelare” lo spazio e il suo senso, i vertiginosi contre-plongée, i grandangoli che rileggono la realtà come sogno e ricordo – ma a un livello più sotterraneo qualcosa è (positivamente) mutato. Se nella fase successiva a The Tree of Life – film spartiacque, punto d’arrivo, opera totale – Malick ha rischiato di restare impigliato nelle reti di certe peculiari scelte linguistiche estetizzanti che, associate a una sostanza “povera” – vedi Song to Song – rischiavano di farsi maniera, forma svuotata, vezzo, in questo ultimo film, complice la materia del racconto e complice anche, forse, il non-rifiuto della narrazione in quanto tale, il regista ritrova tutta la sua solidità, l’incisività dei suoi imperativi, la pregnanza del suo discorso esistenziale e filosofico, la stupefacente capacità di guardare dentro e attraverso la realtà, rivoltandola agilmente come un guanto per rivelarne le tramature interne e “reimmetterla”, così scoperta e svelata, in un contesto di ampio respiro, di fronte a un orizzonte di pensiero che è appunto filosofico e sovratemporale.
In linea con la sua poetica e con le sue predilezioni, anche stavolta il regista ci mostra un universo rurale descritto come idilliaco perché sano, armonioso e coerente: l’amore, la fede, il duro lavoro, la natura, sono i tasselli che compongono il mosaico ruvido ed esatto della vita semplice di Franz e della moglie Fani, che la guerra – intesa come umana follia, come violenza tout-court, come perdita della ragione e inabissamento del mondo - cancellerà con un colpo di spugna. Superbo e ammaliante come sempre nella descrizione dei paesaggi (la solitudine di un campanile che svetta nella valle, il verde lucente e straripante di un prato, l’addensarsi nero e angoscioso delle nuvole contro una parete rocciosa) mai come questa volta Malick riesce a significare, tramite tanti piccoli gesti – uno sguardo, un sasso lanciato, un oggetto rimesso a posto – tutto uno stato di cose: l’ostracismo subito dalla famiglia del protagonista dissidente e irremovibile, la solidarietà di una moglie che trasforma il proprio affetto sincero in una forma di devozione, la profonda, abissale, straordinaria empatia che il protagonista ha il privilegio (e la condanna?) di provare per tutto ciò che lo circonda.
La purezza di Franz Jägerstätter, per il quale l’adesione a un principio, a un modo di sentire, relativizza e ridicolizza perfino l’eventualità terribile della morte, non è dunque conciliabile con il mondo, quel mondo di cui il piccolo paese di Sankt Radegund è specchio e metafora: un potenziale piccolo Eden, in partenza immacolato e protetto, che sceglie – perché, ricorda il regista, il nodo cruciale è il libero arbitrio – di corrompersi e accogliere dento di sé il germe della violenza (una violenza che, come sempre in Malick, è quasi una forma di cecità, una impossibilità di lettura ragionata del reale). Il delirio nazista è quindi, anzitutto, aberrazione della ragione e rifiuto dell’empatia: ed è questo, in ultimo, il presupposto necessario dell’esistenza del male. Tuttavia il protagonista, facendo proprio un orizzonte di visione che non possiamo, in un certo senso, non attribuire anche a Malick, parte dal presupposto che l’odio è qualcosa a cui abbiamo sempre e comunque la possibilità - non tanto il dovere - di rinunciare: fino a sospendere il giudizio sul quel giudice (Bruno Ganz alla sua ultima, incisiva apparizione cinematografica) che infine lo condannerà a morte.