Sulla scia della conclusione della decima edizione del RIFF, Point Blank ritorna a parlare di cinema indipendente, e lo fa incontrando Stefano Grossi, autore e produttore di uno dei migliori documentari presentati al festival romano: Diari del ‘900. Già regista del film Due come noi, non dei migliori (1999), nel 2005 Grossi fonda la Vostok Film, casa di produzione totalmente indipendente che ha già realizzato opere documentaristiche quali Salaam, Miracolo italiano e C’era una volta in Italia. Diari del ‘900 è un’opera che ci ha affascinato, una sorta di viaggio intermediatico attraverso nodi fondamentali del secolo scorso, raccontati dalle intime frasi di protagonisti più o meno conosciuti. Point Blank ha avuto il piacere di incontrare il regista Stefano Grossi negli studi della Vostok Film.
Come nasce l’idea di Diari del ‘900?
A me piace molto la forma diario: ad esempio i romanzi in forma di diario, perché trovo che siano uno strumento di comunicazione leggero e che permette di avere un grado di scavo più intimo, anche perché sono testi pensati il più delle volte per non essere pubblicati. Nei diari ci sono delle verità nascoste che sono interessanti da scoprire, tanto più se toccano momenti storici. È interessante vedere per esempio come Virginia Woolf, in un episodio non inserito nel film visionato al RIFF, racconta la Londra sotto le bombe: lei scrive di essersi salvata dai bombardamenti perché quel giorno era andata a fare una gita fuori città e, al ritorno, la casa dei suoi vicini era stata distrutta dalle bombe; risulta davvero interessante leggere un pezzo di storia descritto in venti righe, così perfettamente calibrate e penetranti. Un altro episodio interessante e non visionato è quello che presenta un Kafka inedito che nel 1909 andava a Brescia a vedere un raduno aereo con Louis Blériot, nel quale l’autore racconta questa sua eccitazione nel vedere gli aerei e i piloti, che è simile a quella di tutti i partecipanti; un Kafka appunto inedito perché quando si pensa all’autore di Praga si ha sempre l’idea di un uomo che pensa al padre e si sente come uno scarafaggio, mentre in questo diario si nota la sua ammirazione e forse invidia per l’evento, e non si limita a porsi domande del tipo: “Ma come fanno a sollevarsi su questi arnesi così fragili?”. Il film è dunque interessante perché o si raccontano personaggi “sconosciuti”, oppure veri e propri protagonisti famosi di cui si ha una certa idea o un certo stereotipo e mostrarli sotto una luce diversa, più intima e inaspettata. Questo perché mi piacerebbe che ci fosse sempre l’effetto sorpresa, anche perché io stesso mi diverto a ricercare personaggi che conosco ma che non ho mai visto sotto questa luce.
Quanto tempo c’è voluto per le ricerche d’archivio?
Diari del ‘900 ha avuto una gestazione piuttosto lunga perché ha presupposto un grosso lavoro di ricerca soprattutto sui testi, e poi un estenuante lavoro di ricerca delle case editrici. Ci sono 33 case editrici con le quali patteggiare i diritti, senza contare che poi bisogna concordarsi anche con gli eredi degli autori citati. Per fare tutto questo abbiamo impiegato tra i 6 e i 7 mesi. In più ci sono voluti più di 3 mesi d’intenso lavoro di ricerca per quel che riguarda il materiale visivo; anche qui l’operato è stato molto complesso, perché alternato tra archivi privati e pubblici.
Qual è il motivo che ti ha spinto a scegliere questi determinati diari, sia per quel che riguarda i personaggi “meno famosi” che quelli più conosciuti: la scelta, ad esempio, di un Kurt Cobain che poco si sposa con Kafka.
Io parto sempre dalla buona letteratura e da persone che hanno un’ottima qualità di espressione, che parlano e scrivono bene e, attraverso le parole, riescono ad offrire un’eco del mondo filtrata dal loro stile. Il primo passo è stato trovare 30 diari (anche se sono molto di più rispetto a quelli realizzati) che risultassero molto interessanti soprattutto da ascoltare al buio e perdersi nelle parole, sia per il loro significato che per come venivano espresse. Poi, oltre a essere belli, i diari dovevano avere ovviamente anche un valore storico, capace di intercettare, più che i temi forti del ‘900, proprio le forti linee del secolo: dai diritti umani all’angoscia esistenziale ed atomica, oppure l’idea perdurante del genocidio e delle guerre. Poi ci sono anche altri episodi che non ho potuto inserire: nel caso specifico di Cobain ho deciso di inserire l’episodio del “maledetto”, ma si dovrebbero inserire anche episodi sulla controcultura degli anni ’60, ovvero le forze fresche del ‘900. In realtà questo è un progetto enorme: potenzialmente, grazie a materiali così ricchi, si potrebbe parlare davvero di tutto. Qui c’è già una base forte a livello visivo, musicale e letterario, quindi dal punto di vista “artistico” è davvero stimolante raccontare la Storia in questo modo. Io ho tenuto un registro intimo,drammatico e anche lirico, ma in effetti si potrebbero trattare tanti altri registri, dal satirico al grottesco, fino al sentimentale. Teoricamente è una ricerca infinita.
Il fil rouge che collega i 20 episodi visionati al RIFF è quello della guerra, genocidi e drammaticità: con l’unione dei 10 episodi che mancano si modificherebbe il significato dell’opera?
Il motivo per cui gli episodi sono 20 è perché ho pensato a cose molto pragmatiche, soprattutto rapportandomi ai festival: ho fatto versioni da 10, 20 e 30 episodi così da creare lavori da 25, 50 e 75 minuti, in modo da poter iscrivere il film a diverse tipologie di festival. Il registro utilizzato, come detto, è quello drammatico, per cui gli altri 10 diari sono coerenti. Addirittura ce n’è uno molto bello interpretato da Elio Germano che non ho potuto inserire perché non ci hanno più concesso i diritti di sfruttamento: è quello relativo al diario di Bobby Sands, patriota irlandese che si lasciò morire di fame in prigione per dimostrare quanto poteva essere forte la volontà di opporsi al dominio inglese in Irlanda. Dal punto di vista dell’impegno politico questo diario ha un registro quasi alla Malcolm X, ma viene fuori anche uno spirito irlandese molto caustico e sarcastico, soprattutto per come il protagonista guarda i suoi aguzzini.
Come è avvenuta la scelta degli attori e perché la decisione di affidare a ognuno di loro dei pezzi specifici?
Ogni attore interpreta una coppia di diari e la cosa più simpatica è stata fare le coppie. Per ragioni di budget non potevo prendere 30 attori e quindi ho dovuto dividerli. La cosa interessante è stata proporre ad ogni attore dei pezzi differenti, così da offrirgli la possibilità di cimentarsi con opere diverse. La scelta degli attori, così come per gli episodi, si è basata sulla qualità: la qualità media tenuta dai protagonisti è molto alta. Mi ha divertito associarli fantasticamente. Loro sono stati molto collaborativi ed entusiasti: credo che per l’attore sia bello confrontarsi con testi intelligenti come questi, anche perché recupera un po’ il senso del suo lavoro. In questi casi è chiaro che, se si riesce a convincere gli attori e mostrare loro la sincera qualità del soggetto, l’adesione è totale.
Quando al cinema si pensa al Novecento vengono subito in mente, tra gli altri, i film Novecento di Bertolucci e La meglio gioventù di Giordana. Come si rapporta Diari del ‘900 all’interno del panorama cinematografico?
Io vengo dal cinema, sono regista cinematografico e sto lottando da anni per realizzare il mio secondo film. Onestamente è difficile collocare Diari del ‘900 nel concetto di cinema: è più un’operazione multimediale in cui il cinema è uno degli elementi che lo connota. Diari del ‘900 nasce come un vero e proprio format: la Vostok Film e la Felix Film stanno cercando di vendere l’idea all’estero. Potenzialmente il lavoro potrebbe essere sviluppato in tutti i paesi del mondo. La cosa migliore sarebbe che un gruppo di registi americani, russi o francesi, prendesse il format e lo ritagliasse a proprio modo, dopodiché potrebbe raccontarlo come vuole, a seconda del proprio talento, modo di ricerca o scelta di registro. Intano Diari del ‘900 verrà distribuito nelle 3 sale che fanno riferimento al circuito Anteo di Milano (Anteo, Apollo e Monza), e ogni episodio introdurrà il film che sarà proiettato in sala. La serie è stata pensata soprattutto per questo motivo: io vorrei che la gente, sia nell’episodio che nei volti degli attori, riconoscesse che ci fosse una serie e che fosse attirata ed incuriosita dalla possibilità di vedere ogni volta un nuovo episodio. Questo è stato uno dei motivi pragmatici che mi ha spinto a convergere anche verso volti noti del cinema: se si realizza un’opera complessa e la si affianca ad attori che, seppur bravi, non sono conosciuti dal grande pubblico, allora il tutto rischia di diventare più complesso. Con questi episodi riesco a recuperare il valore cinematografico perché, pur non trattandosi di cinema in senso formale, gli episodi hanno una qualità cinematografica: i testi devono essere ascoltati al buio, su grande schermo e con il massimo grado di empatia possibile, così da poter apprezzare la qualità del testo stesso, dell’immagine e della compresenza di piani. Oggi il cinema, fruito sul web o in televisione, non ha più quella ritualità di un tempo, che a me piaceva molto: andare al cinema con l’idea che si andava ad osservare un evento unico. In questo senso il cinema di qualità, “la macchina per pensare” di cui parlava Garrel, per me sta prendendo il posto del teatro. A me piace il cinema in cui io guardo il film che mi fa relazionare a me stesso, così come io mi relaziono alla realtà, alle persone che frequento, nel senso che mi pongo sempre degli interrogativi. Io del cinema amo, più che la macchina spettacolare, soprattutto la relazione psichica che instaura col suo fruitore.
Parliamo delle riprese: l’utilizzo della webcam digitale rapportato alle immagini in 16 e 35 mm che scorrono parallelamente. Perché questa scelta.
Soprattutto perché mi piaceva dare un correlativo oggettivo: la forma diario evoca un mondo quasi preindustriale, settecentesco, in cui c’era un tempo di scrittura ed elaborazione della realtà molto lento, complesso e dilatato; una forma di dialogo con se stessi, di chiarificazione interiore. L’idea è stata quella di far cortocircuitare questo modo di scrittura del passato con una più ansiogena e compulsiva che è quella odierna, della comunicazione istantanea via web, sia attraverso webcam che attraverso mail, chat o blog (alla quale siamo tutti ormai abituati). Mi piace questa idea perché sono due mondi apparentemente inconciliabili, ma dalla cui sintesi si sprigiona qualcosa di stimolante, perché si osservano due tempi storici che vivono contemporaneamente sullo schermo. Negli episodi ci sono tanti piani temporali: lo spettatore li coglie insieme e successivamente comincia a dividerli, sente che sta vivendo tempi paralleli e capisce che sta assistendo ad un’operazione in cui si possono cogliere delle vere e proprie epifanie della Storia.
Quale sarà il progetto successivo a Diari del ‘900?
Il prossimo progetto è ancora inedito, stiamo cercando la collocazione migliore per presentalo. Si chiama Quello che resta, ed è un lungometraggio documentario in cui si riflette sul restauro: si parte dal concetto cinematografico per poi allargarsi sull’idea generale del restauro in senso artistico, e lo si applica alla Storia, alla memoria. Alla base di questo film c’è l’idea che si riscontra anche in Diari del ‘900, cioè intersecare tanti piani e vedere cosa succede nei punti d’incontro. La domanda da cui si parte è: la memoria di un oggetto, di una persona, di un periodo storico-culturale, la si rispetta accettando la sua caducità e trasformazione, oppure bisogna cristallizzarla come vorrebbero quelli che hanno un’idea museale dell’arte e della cultura? Tutto parte da un concetto di Marguerite Duras: “Si dimentica il 90% delle cose che si vivono, si diventerebbe pazzi se non fosse così. Io come scrittrice lavoro su queste rovine della mia memoria, sul fatto che la mia memoria degrada e non ricorderò mai le cose così come sono successe realmente; nei momenti in cui la ricordo la rielaboro e le ridò vita, trasformandola”. Per lei è il modo in cui si dimentica che garantisce la qualità della memoria; ovviamente si tratta anche di una provocazione. Utilizzando dei materiali degradati ho riflettuto prima di tutto sul loro degrado, poi su come potrebbero essere usati o ribaltati. Infine ho riflettuto sul punto di vista storico, ovvero sulla possibilità di salvarsi o meno, proprio per un livello artistico, anche perché fa parte della vita, tutto si trasforma. Questo è un film complesso e provocatorio, presuppone uno spettatore motivato, anche perché si riflette sull’idea che ci sono discorsi di ordine artistico, formale, politico e storico che vanno a disegnare una rete di relazioni che attraversano la nostra realtà.