Io sono Mateusz

Una storia di rivalsa perfettamente in bilico fra dramma e commedia sul valore della comunicazione

Solo nel 2008 Robert Downey Jr o confessò apertamente in Tropic Thunder, ma in fondo erano decenni che lo si pensava senza ammetterlo: al cinema trionfano solo i disabili mentali che compensano i propri deficit con un genio inaudito, o le storie coraggiose di persone comuni che perdono il controllo del proprio corpo/cervello e devono lottare per inventarsi una vita diversamente normale. Ma prendiamo la storia di Mateuz (personaggio ispirato alla vita reale di un disabile di nome Przemek), affetto sin dalla nascita da paralisi celebrale: incapace di camminare, di parlare, di muoversi in maniera coerente, considerato dai suoi stessi medici alla stregua di un vegetale. A parte un flusso di reazioni che possono andare dalla sincera compassione, alla derisione o all’ipocrita carità che nasconde il sollievo di non essere in quelle condizioni, quale possibile empatia può sperare di suscitare nello spettatore questo tipo di personaggio?

Per meglio complicare le cose, il regista Maciej Pieprzyca apre il film mostrando Mateusz bambino, esattamente come lo vedono tutti dall’esterno: un muro di carne e nervi impenetrabile, col quale sembra impossibile stabilire un contatto. Si finisce, quasi vergognandosi un po’ di se stessi, col concordare con la spietata dottoressa che si è rifiutata di indorare la pillola alla madre; quel bambino è un caso perduto, non pensa, non capisce, è solo un cumulo di istintive reazioni psiconervose, perfettamente rese dai due interpreti del protagonista, il piccolo Kamil Tkacz e il bravissimo David Ogrodnik, che interpreta Mateusz adulto.

Poi però Mateusz parla. Cioè, non parla davvero, ma lo spettatore sente la voce del suo pensiero, esattamente come nel caso della sordomuta Ada in Lezioni di piano o del paralizzato Jean-Dominique ne Lo scafandro e la farfalla. Mateusz capisce, sente, ragiona, ma non riesce assolutamente a comunicare. Gli occhi e i gemiti che rantola sono tutto quello che ha per parlare agli altri. Facile che i più manchino dello sguardo sensibile necessario per accorgersene, a parte i genitori – ovviamente considerati dei poveri illusi da tutti gli altri – e qualche miracolosa presenza amica, che prima o poi però scompare sempre dalla sua vita.

Vista la trama sopracitata, Io sono Mateusz sembrerebbe un film drammatico, insopportabile da vedere, ma pur ispirando allo spettatore la medesima frustrazione del protagonista, è una storia in realtà delicata, a tratti buffa come riescono a esserlo i pensieri di un bambino, poi divenuto adulto, che deve interpretare senza aiuti la realtà che lo circonda. Mateusz non va a scuola, e a parte i genitori nessuno parla con lui, perciò l’unico modo per imparare come funziona il mondo è guardarlo in continuazione e trarre da solo le proprie conclusioni. Questo significa fraintendere un sacco di cose, ma anche scoprirne altre che nessun altro sa.

Se Mateusz ci parla è perché evidentemente un giorno è riuscito a comunicare la sua storia: tralasciando di rivelare ai lettori che devono ancora vedere il film in che modo ce l’ha fatta, resta il fatto insormontabile che è solo tramite il linguaggio che l’essere umano sembra acquisire dignità. Per quanto possa sembrare scontato, film come Io sono Mateusz ci interrogano sulla giustezza di questa visione, che fa sì che alcune persone siano abbandonate a se stesse in virtù del loro silenzio, che talvolta è solo incapacità di comunicare, un mutismo che affatica sia chi non parla che chi (non) ascolta. Se state pensando che sia una cosa orribile (e lo è), ricordatevi però di come sembra Mateusz nel film finché non si sente la sua voce, e di come è sembrato facile pensare che in fondo fosse davvero un vegetale. La questione, lo ammettiamo, è davvero complicata da risolvere.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 11/03/2015

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