Day of the Fight
L'esordio di Huston trova nell'epica redentiva della boxe terreno fertile per il miglior cinema di genere, classico elegiaco in cui l'impianto documentaristico incontra il racconto a cuore aperto.
Corpi sfatti, mitologie appannate, storie di peccato e redenzione, farsi strada verso il perdono attraverso un calvario di concentrazione e potenza muscolare, sangue sui guantoni e pelle lacerata. Nasi rotti. Zigomi slabbrati. Da sempre il pugilato è un terreno fertile per l’epica e la favola, soprattutto per quanto riguarda la cultura americana, che negli antieroi della boxe ha spesso trovato le coordinate ideali allo sviluppo del suo culto individualista, fede nel singolo e nelle sue capacità di dare senso, direzione e scopo all’esistenza. Specie quando attorno a un incontro specifico si addensa il peso delle scelte di una vita. Day of the Fight è un nuovo, degno interprete di questa tradizione; il film d’esordio di Jack Huston, nipote dell’omonimo regista e interprete di peso in Boardwalk Empire, fa infatti dell’aderenza al canone il suo punto di maggior forza, o meglio della capacità che ha di resuscitare fedelmente il classico e tenerlo in piedi, fino alla fine dell’incontro, con rinverdita energia e sfacciato sentimento, cuore aperto e piena adesione empatica all’animo dei propri personaggi. Un cinema che nasce anzitutto dalla fiducia nel potere mitopoietico della tradizione, e dall’amore, tangibile in ogni fotogramma, per quel micro-universo raccontato e gli uomini che lo abitano.
La storia prende spunto dall’omonimo corto documentaristico di Stanley Kubrick: Day of the Fight è infatti il racconto del giorno in cui Mikey Flanagan, irlandese ex campione dei pesi medi, va incontro al match della sua vita. In ballo c’è una scommessa che vale un mucchio di soldi, un aneurisma nella testa sul punto di esplodere e un passato da cui è impossibile smarcarsi: Mikey è da poco uscito di prigione, su di lui il peso di un incidente mortale in cui, ubriaco alla guida, ha ucciso un bambino. Nove anni di carcere non hanno alleviato il carico della colpa, l’uomo continua a vivere in prigione anche fuori dalle sbarre, preda di un purgatorio di grigia rassegnazione e rimpianto. Unica via d’uscita scommettere tutto e portare a casa il risultato, mettere in gioco quel che resta di sé come uomo sperando di poter compiere un ultimo gesto che sia importante non soltanto per lui ma per la propria famiglia, moglie e figlia allontanate da tempo dopo anni di piena spirale autodistruttiva. Tutto questo Huston, che scrive e dirige, lo racconta seminando indizi e giocando di montaggio, soprattutto attraverso splendidi flash mentali che allineano lo scorrere del visivo ai processi mnemonici, immagini dietro i nostri occhi di ciò che abbiamo perduto e sempre amato. Il risultato è un mosaico mnestico di ossessioni e ricordi, fotografie di una vita che si intersecano agli incontri di Mickey in quell’ultimo giorno, organizzato come un percorso a stazioni nel corso del quale rincontrare e salutare volti cari e lapidi di chi non c’è più. Elegia umanista in un bianco e nero ruvido e granuloso, attraverso il quale Huston riesce nell’impresa – nient’affatto facile, specie per un esordiente – di unire sguardo documentaristico e sentimento, ricostruzione realistica di ambienti, superfici e situazioni al romanticismo dolente del mito infranto.
Solido come il miglior cinema di genere sa essere, Day of the Fight è un regalo e una sorpresa, un film che sa lavorare sugli spazi e sui corpi, incorniciati da una Brooklyn di fine anni ottanta che si fa cornice attiva e crogiolo di storie, e soprattutto sui volti invecchiati di attori che portano sulle spalle il peso dell’epica, pronta a sanguinare ancora se solo incontra un regista in grado di vederla e metterla in scena. Ecco quindi susseguirsi Steve Buscemi, Ron Perlman e soprattutto Joe Pesci, schegge fantasmiche di un cinema passato cui un redivivo, splendido Michael C. Pitt dona l’immediatezza del suo corpo e sangue, il peso cristologico del pentimento. Dove si perde, Huston, è solo nel carico del sentimento, nella gestione di un comparto simile di tradizione ed emozioni a viso aperto. Costruito come una lunga suite musicale, una ballata urbana alla Springsteen fatta di rimpianto e dolore, Day of the Fight non tiene sempre tutto sotto controllo, a volte eccede e carica dove invece bastava far girare e respirare quel che si è già messo sul tavolo. Sono eccessi di cuore, dignitosissimi per un esordiente alle prese con un film così romantico e a lungo atteso. Dovesse trovare modo di asciugare, limare, affidarsi maggiormente ai singoli elementi, selezionati, piuttosto che al loro accumulo, Jack Huston ha tutte le carte per diventare un regista di peso da ritrovare con gioia nei prossimi anni.