First Cow
Kelly Reichardt torna al western e inscrive nel genere il tempo profondo delle sue immagini per giocare con la Storia americana
Anche per Kelly Reichardt il western è prima di ogni altra cosa un avventuroso gioco di ripetizione. Si capisce dalla prima inquadratura di First Cow, la lenta entrata in campo da sinistra di una nave da trasporto sul fiume Columbia: si tratta dell’immagine speculare, la riscrittura, la ripetizione appunto, dell’entrata in campo da destra del lunghissimo e ansimante vagone che apriva il suo film precedente, Certain Woman. Ma è anche la riformulazione della scena di apertura di Meek’s Cutoff, l’altro western della regista, cioè la scena del guado del fiume compiuto dagli sparuti avventurieri protagonisti in cerca di acqua; o, se si vuole cercare una rima più fragile, la ripresa dello sferragliare dei vagoni anonimi all’inizio di Wendy and Lucy. Sempre la stessa immagine, informata in maniera diversa, per dire di lievi slittamenti di un pensiero che rimane fisso – quello della stessa Reichardt, che ha ammesso tempo fa di pensare alle immagini dei suoi film sempre in un modo solo: “I used to think everything was a western”.
Perché questo gioco di parafrasi visive sia tipico del western (come la stessa regista sembra riconoscere), e perché proprio il western venga considerato una matrice che genera la tensione alla ripetizione Raymond Bellour lo ha spiegato molto bene quando ha scritto del carattere di gioco del genere e della sua funzione di ripetizione rispetto alla storia americana: “Fare un western per un regista è ricominciare daccapo la storia e il cinema americani”. E in effetti per Reichardt il western è questa licenza poetica, sfruttata come presupposto teorico che si staglia sullo sfondo delle storie a giustificare la possibilità di rimettere in scena, “sempre di nuovo”, una parte di Storia d’America. O meglio, a cercare attraverso questa continua riscrittura ossessiva, il problematico punto di ingresso della Storia nella terra americana, a giocare a ritroso per trovare il suo punto di inizio. Ecco quindi perché molti dei film di Reichardt iniziano con delle entrate in campo, momenti di ingresso di un evento inedito.
First Cow non è indifferente a questo pensiero, anzi, è forse più di altri un film sensibile alla difficoltà di mettere in scena questo ingresso, e infatti il suo inizio è sfalsato rispetto alla storia principale che racconta. La nave che apre il film non è una nave del diciannovesimo secolo e non trasporta né Cookie, il cuoco protagonista impegnato a cercare lavoro, né Lu, un ambizioso entrepreneur di origini cinesi che sta scappando da alcuni inseguitori, né la prima mucca dell’Oregon, che diventerà l’obiettivo di entrambi; è una nave mercantile del ventunesimo secolo, che presto lascia l’orizzonte dell’inquadratura alla presenza di un cane e di una donna (a proposito di riscritture), impegnati a curiosare a bordo del fiume. Sono loro a dissotterrare per caso due scheletri umani che tenendosi per mano sembrano voler contraddire con il mistero della loro tenerezza il peso del destino desolante che li ha costretti alla terra. Un destino che è Storia, la Storia che sono diventati e che un tempo non erano, come dice il pioniere di Meek’s Cutoff (“Abbiamo preso la nostra decisione, presto si tratterà solo di un cattivo ricordo, di una storia da raccontare) quando si rende conto che la vita che vive e le decisioni che prende diventeranno solo un racconto.
Questo inizio sfalsato, in cui i protagonisti che vedremo vivere sullo schermo sono già scheletri, rimanda allo scarto che separa Storia e vita e racconta del lento assottigliarsi di ogni vita in Storia con il tono dell’apparente inesorabilità propria dello sguardo a posteriori. Questo sguardo per la regista è la prospettiva che il contemporaneo ha non solo sulla Storia ma anche su se stesso: è un punto di vista archeologico, in cui a risaltare è la struttura di apparente inesorabilità per cui la vita, le decisioni, ogni nuovo momento che è avvenuto diventa sempre uno strato della Storia. In questa prospettiva tutto assume il carattere di necessità storica, dal passato al presente, e contestualmente tutto assume legittimità per come è avvenuto e avviene: il contemporaneo letto come ultima prova dell’immodificabilità della Storia non mette in discussione i difettosi connotati che lo caratterizzano perché li legge come naturali. Tuttavia, siccome la Storia è il risultato di una serie di contingenze senza predeterminazione e non di una necessità, il concetto di necessità storica è una falsa prospettiva.
A Reichardt interessa questa falsità, si serve di questa illusione ottica e per questo sfalsa l’inizio rispetto alla storia dei personaggi - nello stesso modo in cui chiudeva Certain Woman con un movimento circolare per raccontare dello stato di apparente immobilità e dell’apparente impossibilità delle protagoniste a modificare la situazione – per dire di un netto contrasto tra due modi di leggere la Storia: uno che la legge come evento necessario, naturalizzandola, e uno che invece all’opposto la distingue dalla Natura, assegnandole il carattere di contingenza. In questo contrasto (che si irradia in tutta la filmografia della regista) il primo modo di leggere la Storia è quello della ragione capitalistica, che trova nella naturalizzazione forzata di se stessa, contingenza storica arbitraria e quindi sostituibile, una giustificazione per sfruttare a piacimento le risorse della terra; siccome per Reichardt la ragione capitalista è la protagonista della Storia americana rimettere in scena la Storia, giocare con la possibilità di una ripetizione, significa aprire una possibilità di riscrittura e di resistenza all’univocità vantata da questa ragione. La regista fa infatti ricominciare il film: non più con il suono del motore della barca, ma con quello sordo e tondo di un fungo staccato dal terreno; non più con la prospettiva a posteriori dall’alto ma con uno sguardo dal basso, per raccontare la storia di Cookie e Lu come inedito ingresso in un territorio naturale inesplorato che sta iniziando a essere sfruttato. Attraverso la loro storia Reichardt smentisce la certezza del contemporaneo inscrivendo nella sua prospettiva il ricordo di un altro tempo, il tempo della natura: l’inscrizione di questo tempo diverso è il lavoro di forma su cui il film si concentra.
Si tratta di un tempo profondo che sembra marciare sul posto e calcare su se stesso, sui singoli gesti, fino a trasformarli in eventi, in singolarità irripetibili, concrezioni di materia che passa e trapassa nel nulla continuamente e comunque riesce a lasciare una traccia, un segno che resta. Il brivido che generano le immagini di Reichardt è legato al fatto che questo tempo che si fa sempre più impersonale, sempre più raccolto e distante, non si estrinseca dalle singole vicende dei personaggi ma è invece incarnato in loro, è presente in essi: le immagini trasudano tempo perché sembrano in grado di intercettarne l’invisibile passaggio, e di congelarlo per un attimo, ma continuamente, in un effetto di vibrazione prolungata, di oscillazione che è cosciente di una presenza. Questa presenza che è concrezione di tempo può assumere la forma della nuvola di polvere esalata da un tappeto sbattuto, il suono dei ciocchi di legno raccolti per fare brillare un fuoco, il lento mungere notturno che cerca di non farsi scoprire di Cookie e Lu - che devono rubare il latte della mucca del sovraintendente per fare le frittelle su cui basare la propria impresa, in un atto criminale, ma coerente con lo sfruttamento strutturale, che deciderà la loro esistenza.
In queste singolarità si affaccia quella che una certa filosofia dell’esperienza estetica ha chiamato shiftness, mobilità, dinamismo intrinseco, ferita in cui i modi finiti, rimanendo tali, sono eterni (eterni, ma non immutabili, come i segni del capitale, perché sempre aperti alla possibilità di non essere). Gli oggetti, le cose, i gesti nelle immagini della regista hanno la qualità che David Herbert Lawrence riscontrava nelle mele di Cèzanne, “l’essere proprio quel qualcosa del qualcosa”. In questo approfondimento temporale abissale Cookie e Lu esistono come uomini che compiono scelte vitali, presenti, non già a posteriori, al punto che proprio Lu insiste nel rimarcare che è il presente la dimensione del loro agire imprenditoriale, in cui si deve cogliere l’opportunità quando si presenta - un presente che comunque è fuori dall’Impero e dalla Storia, anche nelle parole del sovraintendente e del capitano per cui “la Storia si muove così velocemente a Parigi che si estingue là, senza arrivare qui”. Non è ovviamente il presente dell’occasione imprenditoriale che corrisponde al tempo profondo di Reichardt, ma è interessante per la regista che i personaggi in questo caso identifichino la Storia con i costumi umani, non comprendendo che loro stanno comunque scrivendo la Storia su una pagina bianca, introducendo il capitale nell’ecosistema.
Dove si riscontra però di preciso il tempo riscritto, la possibilità di un inizio differente all’interno della storia di Cookie e Lu, la restituzione alla loro storia di una eccezionalità contingente che la necessità storica sembra voler ignorare? Il suo segno è già nella stretta di mano dei due scheletri, cioè nel segreto che essi si portano oltre la riduzione storica: come enuncia la citazione all’inizio del film di William Blake (“L’uccello ha il nido, il ragno la tela, l’uomo l’amicizia”) è l’amicizia tra i due uomini la ferita che si incide nel tempo per restare. E in effetti l’amicizia travalica, sfugge alla ragione mercantile che non la comprende, per rimanere motivo di un sacrificio (visto che Lu decide di non abbandonare Cookie, che, ferito, non può proseguire nella fuga dal sovraintendente) che testimonia di un’umanità commovente. Questa umanità che Reichardt riesce a cogliere, nella sua primarietà di gesto singolare, di presente sensibile, ecco questa umanità è talmente forte e talmente colma di tempo che non finisce, che non capitola, ma invece si erge e resiste, spezzando la proiezione del cerchio che vorrebbe vedere tramutare i due corpi distesi mano nella mano negli scheletri del futuro, cioè vorrebbe sigillare la loro esistenza nel dato storico. Invece il film si conclude con una inquadratura speculare a quella dei due scheletri, come a dire di una opposizione: questo leggero dislocamento di senso è ulteriore ripetizione, gioco con la Storia americana, possibilità che qualcosa possa, sempre di nuovo, accadere, anche se tutto è stato scritto.