Past Lives
Rievocando alla lontana un grande classico di Peter Chan, il film di Celine Song assorbe "una certa tendenza" che ha reso il cinema coreano sempre più pregiato: inquadrando l'amore come movimento sottocutaneo e perseguendo la via dei piccoli movimenti anche di fronte all'incontro col destino.
“Prova a guardare le tue dita. Poi, una per volta, muovile. Ti sembrerà davvero misterioso. Senti di non poter fare niente, ma poi sei in grado di muovere le tue dita”. Suona un po’ così la battuta che pronuncia il personaggio dell’insegnante in House of Hummingbird (2018, di Bora Kim) rivolta alla protagonista, in preda a una percezione di impotenza verso le cose che ha attorno. Muovere le dita solleticando l’aria. Un gesto piccolo piccolo attraverso cui si restituisce nel film un principio di compiutezza, di autodeterminazione.
Partiamo da qui. Non c’è alcun legame diretto tra Bora Kim e Celine Song, la regista di Past Lives. Entrambe però sono coreane. Ed entrambe hanno un modo molto simile di scrivere attraverso le loro immagini un’idea della vita che suoni come una specie di ronzio, o si posi come una nebbia sottile. Tra corpi in letargia e piegati all’inazione, muovere un dito coscientemente può accendere una luce. Il cinema coreano che conta è pieno zeppo di questa pratica, di questo modo di vedere le cose attraverso la lente della sobrietà e dei piccoli movimenti. Vengono in mente pure Moving on (2019) di Yoon Dan-bi e Aloners (2022) di Hong Sung-eun, ma pure la commediola agrodolce di Kim Cho-hee, La fortunata Chan-sil (2019).
In modo altrettanto efficace, dicevamo, se ne serve anche Past Lives, che scivola benissimo lungo la pasta morbida dei non detti, nello specifico adottando qui una prospettiva autobiografica, che vede la protagonista abbandonare i natali in Corea per emigrare in Canada coi genitori, e da lì muovere in età adulta a New York, proprio come accaduto per la regista. Nel suo passaggio dalla Corea a New York, la protagonista (Greta Lee) abbandona il nome, da Na Young a Nora Moon, e un amico-fidanzatino, Hang-seo (Teo Yoo). Si salutano senza dirsi neppure una volta quello che provano l’uno per l’altra e si perdono di vista per 12 anni, fino a quando lui non si serve di Facebook per rintracciarla. Ne vien fuori un dialogo a distanza à la Normal People, facce pixelate che si incontrano sui monitor dei MacBook nelle brevi coincidenze di disponibilità offerte dal fuso orario. E poi si riallontanano per altri 12 anni, fin quando Hang-seo decide di raggiungere Nora, pur sapendola ormai sposata con un newyorkese che come lei fa lo scrittore (John Magaro).
Non c’è una storia d’amore all’orizzonte. I due neppure si sfiorano, come invece accade nel melò bellissimo di Peter Chan, Comrades - Almost a love story (1996), che ne fa sicuramente da modello. Anzi, Hang-seo attraversa continenti quasi soltanto per comprendere cosa s’è perso dell’amica d’infanzia, senza nutrire alcuna speranza per una riconquista. Celine Song fa camminare i suoi protagonisti per le vie del Brooklyn Bridge Park - lo skyline di Manhattan di là dall’Hudson - e li osserva mediante la grana preziosa e la ricchezza pastosa dei colori catturati dalla sua lente analogica. Qualità finissima propria delle immagini laccate A24 e Sundance, si dirà, e tuttavia questa volontà di impreziosire il quadro non altera la tensione sottostante. Entrambi parlano di in-yun, una parola che i coreani utilizzano per concettualizzare il tocco del destino che si posa su due persone (anche quando queste si sfiorano soltanto, senza che s’incontrino o nasca qualcosa tra loro), una fatalità carica in sé del pregresso di vite passate, di incontri sopiti nella memoria del tempo.
Due persone innamorate l’una dell’altra sono il risultato di almeno ottomila livelli di in-yun, dice ancora Nora, e un po’ così funzionano questo film e il cinema coreano di spessore, lavorando a catturare lo spirito del tempo, l’imperturbata distanza alienante prodotta dal lavoro (Aloners), da una famiglia in conflitto (Moving On), dalle pieghe del destino e dalla propria volontà (Microhabitat e lo stesso Past Lives), per cavarne fuori - spesso in modo assai prosaico e per questo ancor più magico - anche il più sottile strato di una qualsivoglia qualità umana sincronizzata con l’amore puro. E per questo il compagno yankee di Nora le rivela di sentirla bisbigliare nel sonno in coreano, la lingua che ha quasi reciso dalla sua esistenza, come se inconsciamente si rifugiasse in un’alcova affettiva che è una sacca di tempo e di memorie, una diffrazione dello spettro. Non solo nella dimensione lunare e inconscia del sogno, anche nella vita vera Nora e Hang-seo esprimono quel gesto di compiutezza e autodeterminazione, di cui parlavamo in apertura, affrancandosi dal destino, o quel che è un ronzio nell’orecchio di essere meant to be.
Come suggerisce una sequenza chiave che è infatti il controcampo visivo e uditivo dell'incipit, coi tre personaggi - il coreano, lo yankee e la coreana-yankee - seduti al bancone di un bar sorseggiando un drink. All'inizio, con prospettiva frontale e distante dai personaggi, partecipiamo con la voce di un gruppo di spettatori invisibili nell'intuire il rapporto tra i tre, e vien facile pensare che stia accadendo qualcosa di più tra i due coreani, mentre il terzo è isolato, in ascolto, viso preoccupato. Col rovescio prospettico che seguirà più in là nel film - e di cui è, appunto, il momento chiave - la verità del dialogo tra Nora e Hang-seo si rivela. È un venire a patti coi turbinii dei rispettivi mondi interiori, con i pruriti dei what if, di infinite vite passate e ipotetiche in cui ci si è tenuti per mano come da bambini, per compiere infine quel piccolo movimento delle dita che è invece un balzo di tigre (senza voler scomodare Benjamin, la cui espressione calzava però qui a pennello). E quasi riducono la grande aura del destino a una piega, un'increspatura della realtà, scegliendo strenuamente di custodirsi in un incontro e un ricordo, diventare l’uno per l’altro un brivido sottocutaneo, un gorgheggio dell’anima.
In La fortunata Chan-sil, il fantasma dell’attore Leslie Cheung appare d’un tratto alla protagonista cinefila e la tiene stretta tra le sue braccia, chiedendole uno sforzo. “Tieni duro, Chan-sil”. Una battuta che è di una verità granulare e che però è quanto Nora e Hang-seo possono e decidono di abbracciare. Rompendo l’inerzia, filtrando l’ovatta della vista, tenendo duro.