Il potere del cane
Leone d'argento a Venezia 78, l'ultimo film di Jane Campion è un'elegante parabola sulla violenza, sulla vendetta e sul desiderio negato
Nell’ultimo film di Jane Campion – avvolgente, insinuante, languidamente feroce – del western tout-court restano alcune traiettorie peculiari: il confronto impari uomo-natura, dove la fragilità del primo è enfatizzata dall’immensità maestosa e incombente e dall’indifferenza della seconda; la necessità, che diviene coercizione, di imporsi con la forza e la brutalità, in quanto uomini, in un orizzonte quasi esclusivamente maschile che si autocondanna continuamente negandosi la possibilità di mettere in discussione i limiti che si è autoimposto; l’amicizia virile intesa come alleanza che esclude conseguentemente il femminile (perché potenzialmente destabilizzante, perché elemento di inconciliabile alterità) relegandolo in uno spazio ben definito e controllabile.
Come in molto western contemporaneo però, tutto questo è rielaborato e riletto in un atto di smascheramento della mitografia della frontiera, portato avanti in maniera elegante ma inesorabile.
L’isolamento nella natura meravigliosa e sconfinata è premessa per una solitudine emotiva e psichica che è deriva, abbrutimento, follia nutrita di solipsismo e incomunicabilità. La dimensione del sentire imperante - all’incrocio di misoginia, omofobia e machismo – è indagata e sviscerata per mostrarne le falle profonde, le ferite aperte.
Tratto dal libro omonimo di Thomas Savage (1967), il film mette in scena la vicenda di due fratelli proprietari di un grande ranch nel Montana, negli anni ’20. Phil (Benedict Cumberbatch), è un uomo rude e crudele, provocatore e tirannico. È in virtù di questo suo atteggiamento – e non certo per la laurea in lettere che anzi si sforza di tenere nascosta – che ha ottenuto il rispetto di tutti. Il fratello George (Jesse Plemons), spirito gentile, controparte conciliatoria, desideroso di amare e condividere, decide quasi su due piedi di sposare una vedova (Kirsten Dunst) e la porta a vivere nel ranch insieme a suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), giovane sensibile e appassionato studente di medicina.
L’insicurezza del ragazzo e la fragilità della donna sono per Phil un boccone troppo stuzzicante per resistere: diventeranno immediatamente il bersaglio prediletto per sfogare sadicamente rabbia e frustrazioni, fino a che, rovinosamente ma inevitabilmente, l’uomo non finirà per rivelare la sua segreta vulnerabilità a un nemico che non credeva tale.
La sceneggiatura, qui meccanismo solido e perfettamente oleato, è quella di una partita a scacchi dove ruoli apparentemente granitici si fanno man mano sottilmente ambigui, mostrando crepe pericolose e zone d’ombra per poi sgretolarsi attraverso inversioni e disvelamenti.
Tutto avviene fluidamente, lentamente, attraverso continui, disorientanti spostamenti che coinvolgono ora i personaggi e l’immagine che hanno di loro stessi e dell’altro, ora lo spettatore, dentro il film (chi è la vittima e chi il carnefice?) e prima del film (chi è, in ultimo, il protagonista della storia?)
Il potere del cane è un film densissimo: di contrapposizioni (debolezza e ferocia, innocenza e malvagità; ma anche maschile e femminile, maturità e giovinezza); di dimensioni del vivere e del pensare (quella urbana, addomesticata, linda e pura – George - contro quella selvaggia, pericolosa e violenta – Phil); di riflessioni metacinematografiche (la destrutturazione dei miti fondativi americani e quindi del western come codice espressivo e prima ancora di valori).
È anche un film disseminato di simboli e soprattutto di azioni simboliche: l’uccisione, e poi il sezionamento, del coniglio; la castrazione brutale del bue. Azioni che non valgono soltanto in sé, in astratto, ma sono rivelatrici in relazione a coloro che le compiono.
È un film che risplende, nel vero senso della parola: risplende il paesaggio brullo e arido che si spalanca come una vertigine, palcoscenico infinito nel quale il ranch – così “hopperianamente” isolato e malinconico – è un oggetto estraneo, un enigma sospeso e tutto umano nel vuoto smisurato e lunare. Risplende la sensualità dei corpi, su cui la regista si sofferma solo a tratti per dire però a chiare lettere della negazione dolorosa che sottende ogni cosa: il desiderio represso e però inestinguibile, che si traduce, in senso lato, nell’impossibilità di esprimere se stessi al di fuori di un determinato canone che non ammette tolleranza né perdono.
Ma la fascinazione de Il potere del cane – titolo che viene da un versetto del libro dei Salmi, metafora dell’istintualità più bestiale e spietata – deriva tutta dall’ambiguità, che è la sua cifra espressiva e sua chiave di volta: è nell’ambiguità che il reale si svela e si fa inaspettato, è dall’ambiguità che nasce la seduzione. L’opacità, il dubbio, l’inintelligibilità appartengono ai personaggi nel loro reciproco relazionarsi, ma anche al loro modo – articolato, mutevole - di offrirsi allo sguardo spettatoriale.