X-Men - Dark Phoenix
Dopo il disastroso Apocalypse non si risolleva l’universo mutante della Fox, che si chiude con un capitolo debole e privo di idee.
In tempi di #MeToo e casi Weinstein, in cui la nostra industria culturale è chiamata a confrontarsi con nuove istanze e logiche di rappresentazione (dovendo finalmente rispondere a una complessità del reale non più accantonabile), la saga di Fenice Nera scritta da Chris Claremont nel 1980 rappresenta un materiale dal grande potenziale narrativo e simbolico, un’epopea supereroica incentrata sul potere femmineo e il suo timore da parte maschile, e soprattutto sul controllo cui siamo soggetti fino a che non acquisiamo la possibilità di scrivere la nostra narrazione. Resa orfana dalla débâcle di Bryan Singer (dignitosissimo padre cinematografico dei mutanti Marvel fino al pessimo Apocalisse), la saga degli X-Men torna dopo Conflitto finale a confrontarsi con quella prima, storica, run di Claremont, consapevole della forza del materiale e spinta dalla necessità di chiudere il proprio arco narrativo (sul cui futuro, ora che le proprietà intellettuali della Fox sono state acquistate dalla Disney, è impossibile pronunciarsi). Tuttavia X-Men - Dark Phoenix è se possibile ancora più confuso e inconcludente del precedente Apocalisse, un ibrido mal riuscito tra la spettacolarità della prima trilogia e le ambizioni autoriali dei primi due prequel (X-Men – L’inizio e Giorni di un futuro passato).
Affidato per la regia all’esordiente Simon Kinberg, da tempo impegnato con i mutanti in veste di produttore e sceneggiatore, Dark Phoenix cerca di adattare la sua storia di potere e rapporti tra i sessi alla sensibilità attuale, ma l’unica cosa che riesce a fare è lanciare frecciatine e paralleli casuali riguardo i temi del sessismo e del paternalismo, argomenti che il film cerca di problematizzare senza riuscirci, mai, neanche alla lontana. Della storia di Jean Grey, compagna e allieva fedele il cui potere viene prima limitato dall’esterno e poi, una volta liberato, giudicato eccessivo e incontrollabile, resta soltanto il debole tentativo di raccontare un personaggio vittima dei propri conflitti interiori, contraddizioni e traumi enunciati dalla storia ma mai resi snodi narrativi avvincenti, fondanti. Dark Phoenix arriva a fine corsa nella saga ventennale dei mutanti, e se nel frattempo sono cambiati modelli e linguaggi, equilibri produttivi e proprietà intellettuali, il film accusa il suo essere fuori tempo massimo con un senso di inconcludenza che ne affligge ogni aspetto. Dal cast, svogliato e tirato dentro per meri doveri contrattuali, alle fasi di scrittura e regia, afflitte da una totale carenza di idee, da un vuoto pneumatico in cui, fondamentalmente, non era rimasto più nulla da mostrare o da dire. Il risultato è un film totalmente inerte che manca di qualsiasi epica finale e non riesce a risollevarsi neanche sul piano spettacolare, non avendo basi su cui appoggiarsi o soluzioni visive forti per compensare. Un finale mesto e di certo ingiusto per la bellezza e lo spessore di questi personaggi, tra i più affascinanti dell’universo Marvel, che nel 2000 hanno aperto assieme allo Spider-Man di Raimi la strada del cinecomic ma che oggi riescono soltanto a farci ricordare quanto sia complesso raggiungere i livelli toccati dal Marvel Studios con la chiusura del suo grande ciclo.